Alexandria Ocasio-Cortez e Mitch McConnell sono le due figure che al meglio esemplificano gli scogli che l’entrante amministrazione di Joe Biden dovrà doppiare per mettere in campo un’efficace azione politica di governo degli Stati Uniti. Due figure politicamente e umanamente agli antipodi: da un lato, la 31enne deputata del Bronx, esponente della sinistra democratica, portatrice con le sue alleate della “Squad” di un’agenda progressista e radicale, giovane politica idealista e dalla forte esposizione mediatica; dall’altro, il 79enne coetaneo del presidente eletto, esponente di lungo corso dell’establishment repubblicano, al Senato per il Kentucky dal 1985 e leader della maggioranza a Capitol Hill dal 2015, tra i “cavalli di razza” dell’apparato del Grand Old Party, continuatore della tradizione di gestione del potere nella capitale Washington. Che in caso di vittoria repubblicana a uno dei due ballottaggi di gennaio in Georgia conserverà la poltrona di leader della maggioranza e un potere di agenda notevole nei confronti dell’amministrazione Biden.
Una volta esaurita la spinta post-elettorale, infatti, bisognerà governare. E l’amministrazione democratica dovrà decidere come tramutare in proposte concrete una complessa agenda frutto di una mediazione sistemica tra le diverse anime del partito: il tradizionale centro, governativo fino al midollo, di cui Biden è il classico esponente, moderato e aperto alle negoziazioni bipartisan; l’ala liberal-progressista di cui è esponente la vicepresidente eletta Kamala Harris; battitori liberi della Sinistra dotati di grande potere di condizionamento come il vecchio leone Bernie Sanders e, infine, l’agitata sinistra interna. Che chiede un’accelerazione su ogni fronte: welfare, diritti civili e, soprattutto, ambiente. Il Sacro Graal della sinistra guidata dalla Ocasio-Cortez è quel Green New Deal già proposto (e schiantato) al Senato nel 2019, ove una proposta di legge fondata su una transizione accelerata e irrealistica oltre le energie fossili non ricevette nemmeno un voto favorevole.
Il radicalismo delle proposte della sinistra interna preme su Joe Biden e la sua amministrazione, e c’è chi nel Partito Democratico sostiene che sia stato proprio lo spauracchio del socialism sventolato in diversi distretti contesi del Congresso a favorire la sostanziale tenuta dei Repubblicani, che alla Camera dei Rappresentanti hanno guadagnato diversi seggi sulla maggioranza democratica e sono totalmente in partita per mantenere il controllo del Senato. “La tanto sperata “blue tide” (l’onda blu) non è avvenuta”, ha scritto su Formiche il politologo Luigi Curini, che ha aggiunto che “i moderati democratici hanno puntato il dito contro i colleghi “Democratic Socialists” rei, a loro dire, di aver sbilanciato il partito su posizioni troppo radicali. Posizioni che hanno finito paradossalmente per penalizzare proprio i candidati centristi che si sono trovati a competere contro i repubblicani in seggi non blindati dall’utopistica narrazione “woke” delle grandi città liberal del Paese”.
E se da un lato le pressioni della sinistra potrebbero, in caso di agenda controversa, far vacillare la maggioranza dem alla Camera al Senato Biden si troverà, giocoforza, a dover fare i conti con i repubblicani e McConnell. In primo luogo perchè, nel migliore dei casi, i dem impatteranno sul pareggio a Capitol Hill e potranno contare sul voto risolutivo della vicepresidente Kamala Harris, ma non potranno in continuazione tendere all’estremo la polarizzazione dello scontro politico. Anche perchè i dem mantengono delle pedine chiave al Senato in feudi storicamente repubblicani: Joe Manchin III, ad esempio, rappresenta la “rossa” West Virginia, mentre Kyrsten Sinema è espressione dell’Arizona. Difficilmente senatori così in bilico potranno sposare ogni punto “liberal” dell’agenda governativa. Per questo motivo la mediazione con McConnell, che punterà a spingere sui temi bipartisan (risposta al Covid-19, infrastrutture, re-industrializzazione, sfida alla Cina sulla tecnologia) e a difendere i risultati dell’ultima amministrazione sul piano fiscale, risulterà in ogni caso decisiva.
Ed è plausibile che a Biden esca più facile trovare un modus vivendi con quei repubblicani maggiormente pronti a cercare di portare avanti in nome di interessi comuni con forte pragmatismo piuttosto che cercare puntualmente un punto di compromesso con l’animata sinistra interna. Biden conosce McConnell e molti dei senatori di lungo corso del Grand Old Party, ne è stato a lungo collega e non semplicemente avversario politico. Biden nell’era Obama ha più volte cercato da vicepresidente difficili mediazioni in un clima politico sempre più polarizzato; McConnell in primavera ha portato a compimento un vero e proprio capolavoro politico sbloccando l’impasse sul piano anti-crisi da 2 trilioni di dollari. La sua volontà di alzare la posta nelle negoziazioni è parsa evidente nei giorni dopo il voto, in cui McConnell non ha fatto sua nessuna delle esternazioni più problematiche di Donald Trump, ma ha deciso di rimandare le congratulazioni ufficiali a Biden dopo l’esito delle manovre giudiziarie intentate dall’amministrazione, sottolineando che il presidente uscente “è nel suo pieno diritto quando chiede di controllare eventuali brogli elettorali e valuta azioni legali”.
In sostanza, scrive l’Huffington Post, “McConnell sta dunque giocando una partita di lungo periodo, ben sapendo che le sue dichiarazioni non cambieranno né il risultato elettorale né lo scenario che ha determinato: Mitch McConnell e Joe Biden sono considerati due naviganti di vecchio corso nel mondo della politica, hanno vissuto nei palazzi del potere per gran parte della loro vita e sono capaci di scendere a compromessi anche nei momenti in cui i rispettivi partiti si azzuffano pubblicamente”. Il potere è negoziato permanente in cerca di compromessi e punti di contingenze, ma a tratti deve giocare anche di bluff e rilanci: Biden e McConnell, questo è certo, parlano la stessa lingua. Stessa cosa non si può dire in relazione al rapporto tra la sinistra dell Ocasio e l’ex vice di Barack Obama.