Giappone e Corea condividono una storia fatta di scambi culturali e conflitti che attraversa quasi due millenni. In epoca moderna il rapporto conflittuale tra i due popoli, che si trascina e si fa sentire a livello diplomatico ancora oggi, risale all’occupazione nipponica della Penisola Coreana avvenuta tra il 1910 ed il 1945.
Dopo il conflitto russo-giapponese e la débâcle della flotta dello Zar nella battaglia di Tsushima (1905), Tokyo assunse de facto il controllo sulla Corea e nel 1910 la annesse all’Impero del Sol Levante.
Nello sforzo di costruire un impero economicamente autosufficiente, il Giappone investì molto in una politica di industrializzazione della Penisola – sfruttando le miniere di carbone del Nord – che però fu accompagnata da una forte e sistematica “nipponificazione” della cultura coreana: furono cambiati i cognomi, bandito l’insegnamento della lingua e cultura autoctona dalle scuole e promosso l’uso esclusivo del giapponese.
Questa politica snaturante ebbe un parossismo tra il 1930 e il 1945 a seguito dell’invasione nipponica della Manciuria – con l’incidente Mukden del 1931 – e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Durante quegli anni, come risposta, si formarono dei gruppi di resistenza comunista, appoggiati segretamente dall’Unione Sovietica, presso le comunità etniche coreane in Manciuria, che videro l’emergere di un personaggio in particolare: Kim Il-sung, futuro primo leader della Corea del Nord.
La fine del secondo conflitto mondiale vide la Corea divisa in due dalle potenze vincitrici lungo il 38esimo parallelo ed il Giappone, pesantemente sconfitto, sul banco degli imputati per crimini di guerra e per aver avuto una politica di tipo coloniale in Asia, fattore che come vedremo tornerà spesso sul tavolo delle trattative tra i due Paesi. Pertanto Giappone e Corea del Nord non hanno mai avuto (e non hanno tutt’ora) relazioni diplomatiche in via ufficiale – quelle tra Tokyo e Seul cominceranno solamente a partire dal dicembre del 1965 – complici anche le dinamiche della Guerra Fredda.
Dopo la Guerra di Corea (1950 – 1953) a cui Tokyo – per ovvi motivi – prese parte solo come base logistica per le forze armate americane e alleate, i circa 600 mila cittadini coreani che erano rimasti in Giappone post Seconda Guerra Mondiale diedero vita all’Associazione Generale dei Residenti Coreani in Giappone con l’assistenza di Pyongyang. L’associazione, nata nel 1955, si chiama “Chongryun” (Chosen Soren in giapponese) e, insieme alla minoritaria “Mindan”, riservata a quei coreani che si identificano nella Corea del Sud, ha rappresentato l’unico vero legame tra i due Paesi per 70 anni.
Il Giappone e Chongryun: un rapporto sulla via del tramonto
I 600 mila coreani residenti in Giappone che simpatizzavano per il regime di Pyongyang rappresentarono, soprattutto sino ai primi anni ’90, l’unico “ufficio diplomatico” tra i due Paesi. Tra gli anni ’70 e ’80 in particolare l’associazione “Chongryun” ha avuto un ruolo chiave per quanto riguarda gli scambi economici e finanziari tra Tokyo e Pyongyang.
“Chongryun”, soprattutto nei primi due decenni della sua esistenza, ha creato una fitta rete culturale ed economica in Giappone stabilendo una vera e propria enclave nella società nipponica.
L’organizzazione, infatti, era dotata di società di commercio, banche, scuole, ospedali e ovviamente di organismi di stampa. Prima delle sanzioni elevate negli anni 2000 operava anche con vascelli commerciali tramite vere e proprie linee di navigazione regolari tra Niigata e Wonsan. Oltre agli istituti di credito legati all’associazione, responsabili della quasi totalità dell’invio di valuta pregiata in Corea del Nord – e successivamente al centro di un’inchiesta per attività fraudolenta – “Chongryun” ha anche permesso il “rimpatrio” in Corea del Nord – tra il 1959 ed il 1984 – di più di 93 mila coreani residenti in Giappone, sebbene la maggior parte di questi fosse originaria del sud della Penisola.
A seguito delle difficoltà finanziarie legate alle sanzioni in campo commerciale elevate dal Giappone verso la Corea del Nord a cui si somma il minore sostegno da parte dei nippocoreani (chiamati Zainichi), “Chongryun” ha subito un inarrestabile declino. I suoi membri nel 2015 ammontavano a 150 mila a fronte dei quasi 600 mila iniziali, e dal 2009 l’associazione ha chiuso la maggior parte dei suoi istituti di credito e due terzi delle scuole, nonostante i sussidi elargiti da Pyongyang. Nel 2012, a seguito del crack finanziario di “Chongryun”, il tribunale di Tokyo ha imposto all’associazione di mettere all’asta i suoi beni immobili, compresa la sede centrale, la cui proprietà fu persa nel 2015.
Nello stesso anno la polizia giapponese arrestò il leader di “Chongryun” – Ho Jong Man – accusato di importazione illegale di funghi dalla Corea del Nord (uno dei principali beni esportati da Pyongyang nel Paese del Sol Levante), insieme ad altre quattro persone, incluso il figlio dello stesso Ho.
Gli anni ’70 e ’80
Fondamentalmente, nel periodo che va dal 1970 al 1990, tra Giappone e Corea del Nord, fatto salvo per i traffici dell’associazione “Chongryun” appena disaminati, si può dire che vi fossero dei “non rapporti”.
Nei primi anni ’70 l’influsso della “Dottrina Nixon” di apertura verso la Cina influì anche sul Giappone così come sulla Corea del Sud, e Tokyo si avviò verso la normalizzazione dei rapporti con Pechino cercando, parallelamente, di migliorare le sue relazioni anche con Pyongyang, ma dal 1975, come avvenuto per Seul, il tutto si risolse in un nulla di fatto.
La situazione degenerò qualche anno dopo, nel 1983, a causa dell’attentato dinamitardo di Burma che uccise e ferì gravemente numerosi membri del governo sudcoreano in visita nel Paese; attentato che fu imputato a Pyongyang e che portò all’elevazione da parte del Giappone delle prime sanzioni internazionali unilaterali.
In risposta la Corea del Nord imprigionò due membri dell’equipaggio del peschereccio nipponico “Fujisan-maru” che aveva sconfinato nelle acque territoriali nordcoreane. Fatto che comunque costrinse le due parti a cercare, ancora una volta, il dialogo.
La fine della Guerra fredda
Con il termine della Guerra fredda ed il conseguente riequilibrio dei rapporti internazionali al di fuori dell’ottica dei blocchi contrapposti – ed il timore di Pyongyang di restare isolati – le relazioni tra Giappone e Corea del Nord sembrarono procedere verso uno sviluppo positivo. Già prima dell’ingresso della Corea del Nord nel consesso delle Nazioni Unite (1991), Tokyo inviò per la prima volta una sua delegazione a Pyongyang per negoziare la liberazione dell’equipaggio del “Fujisan-maru” con a margine i primi colloqui privati tra il leader Kim Il-sung ed il capo delegazione nipponico Kanemaru Shin.
Come conseguenza si giunse alla Three-Party Joint Declaration (con Seul) in cui il Giappone si impegnava a scusarsi ufficialmente per l’occupazione coloniale della Penisola, a fornire una compensazione economica per quel periodo e per quello successivo alla Seconda Guerra Mondiale e fissava le direttive per le future relazioni diplomatiche di normalizzazione tra i due Paesi.
Questo accordo, però, non venne recepito successivamente dal governo nipponico per voce del Ministero degli Affari Esteri che lo riteneva non vincolante, ma nonostante questo improvviso stop si assistette ad un generale miglioramento negli affari regionali anche in funzione della Joint Declaration on the Denuclearisation of the Korean Peninsula raggiunta con la Corea del Sud.
La prima metà degli anni ’90 sembra essere caratterizzata dai migliori auspici per una normalizzazione della Penisola Coreana: Pyongyang firma nel 1992 un accordo di sicurezza dell’Aiea (Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica) nel 1992 che come conseguenza porta a otto incontri tra le delegazioni giapponesi e nordcoreane.
L’idillio però ha vita breve. La Corea del Nord si dice non soddisfatta dalle scuse formali nipponiche e dalla compensazione economica per l’occupazione coloniale ed il Giappone di rimando esprime le proprie riserve sul comportamento nordcoreano in merito alle “spose di guerra” nipponiche (nihonjinzuma) a cui venne proibito il ritorno in patria e, soprattutto, viene per la prima volta menzionata la problematica dei rapimenti (rachijiken) perpetrati da agenti nordcoreani a danni di giovani cittadini giapponesi tra gli anni ’70 e ’80.
La prima crisi nucleare del 1994 sembra però non intaccare i rapporti commerciali – a differenza di quelli diplomatici – tra Tokyo e Pyongyang con una pragmaticità tutta orientale.Con la fine del supporto dell’Unione Sovietica il Giappone divenne infatti il secondo più grande partner commerciale della Corea del Nord (dopo la Cina). I principali prodotti esportati da Tokyo in questo periodo sono automobili, macchinari per l’industria, componenti elettriche in cambio di carbone, funghi e mitili.
Inoltre varie Ong nipponiche e amministrazioni locali furono particolarmente attive durante la grave carestia che colpì la Corea del Nord causando tra le 600 mila e il milione di vittime. Il Giappone era infatti in grado di fornire quantità abbondanti di riso dato il surplus di produzione causato da politiche autarchiche e spedì circa 300 mila tonnellate di questa risorsa alimentare nel 1995. Inoltre il governo si fece carico, presso l’UN World Food Programme, di una donazione di 27 milioni di dollari per la Corea del Nord.
Durante questo periodo per due volte (nel 1995 e nel 1997) una delegazione giapponese visitò Pyongyang per cercare di far ripartire i negoziati bilaterali ma la situazione giunse ad un punto morto ancora per le richieste nipponiche in merito al problema nihonjinzuma e soprattutto per i rachijiken.
La pietra tombale sui rapporti tra i due Paesi negli anni ’90 fu messa dalla Corea del Nord quando, nel 1998, il lancio di un missile “Taepodong-1” sorvolò le acque territoriali nipponiche. In quella circostanza Tokyo sospese il suo contributo di un miliardo di dollari al Kedo (Korean Peninsula Energy Development) e cessò l’invio di aiuti umanitari ritirandosi nel contempo dai colloqui di normalizzazione bilaterali.
La questione dei rapimenti – rachijiken – diventerà una costante nei rapporti tra i due Paesi. Almeno nove persone tra il 1977 ed il 1978 e altre tre nei primi anni ’80 sono state rapite da agenti nordcoreani per addestrare le proprie spie sulla cultura e lingua giapponese. Le scuse formali di Kim Jong-il nei primi anni 2000 ed il ritorno di cinque dei rapiti (15 ottobre 2002) non bastarono a normalizzare la situazione, ritenuta sempre prioritaria dal Giappone sin quasi a livello ossessivo, tanto che rappresenterà sempre lo scoglio sul quale si infrangeranno tutti i successivi tentativi di avvicinamento tra Giappone e Corea del Nord.
L’atteggiamento minaccioso nordcoreano ha portato il Giappone a stringere di più i legami con la Corea del Sud e soprattutto con gli Usa, coi quali, nel 1999, cominciò a sviluppare un programma di difesa dai missili balistici (Bmd) e autonomamente mise in orbita i suoi primi quattro satelliti per attività di intelligence.
Gli anni 2000, la seconda crisi nucleare ed il Six Party Process
Quando nell’ottobre del 2002 il programma nordcoreano di arricchimento dell’uranio fu svelato, il governo nipponico si schierò apertamente con l’amministrazione americana (Bush) per mettere pressione sulla Corea del Nord e a novembre dello stesso anno, insieme a Usa, Ue e Corea del Sud, sospese l’invio di petrolio greggio alla Corea del Nord nel quadro della sanzioni internazionali. L’anno successivo il Giappone elevò ulteriori misure restrittive sulle esportazioni verso Pyongyang dopo che ebbe la conferma che le associazioni nippocoreane attive nel Paese ebbero una parte non secondaria nella spedizione di parti per missili.
L’ascrizione della Corea del Nord nell’ “Asse del Male” da parte del Presidente degli Stati Uniti Bush, spinse però Pyongyang a ricercare uno spiraglio dall’isolamento attraverso il Giappone. Nel 2001 Kim Jong-il incontrò segretamente, a Singapore, il Primo Ministro Yoshiro Mori ma i negoziati, ancora una volta, stallarono per le rivendicazioni nipponiche sulla questione dei rapimenti. Stessa sorte ebbe il secondo turno di consultazioni segrete tenutosi a settembre del 2001 con i rappresentati del nuovo esecutivo giapponese (Koizumi), che però portarono alla visita ufficiale del Premier a Pyongyang a settembre del 2002.
Al termine della visita fu siglata quelle che si chiama “Dichiarazione di Pyongyang”. Nel testo si legge che a fronte della sospensione dei test missilitici da parte nordcoreana il Giappone avrebbe fornito aiuti economici per un valore compreso tra i 5 ed i 10 miliardi di dollari. Per l’ennesima volta la questione dei rapimenti inibì ogni futuro sviluppo in quanto l’opinione pubblica nipponica – che per lo stesso ordinamento dello Stato ha un notevole influsso sul governo – si scagliò contro la decisione presa da Koizumi.
Anche gli accordi presi durante il secondo incontro ufficiale tra Koizumi e Kim Jong-il tenutosi a Pyongyang il 22 maggio del 2004 naufragarono per la medesima questione, e l’invio di 250 mila tonnellate di aiuti umanitari unitamente ai 10 miliardi di dollari di forniture mediche fu sospeso a tempo indeterminato quando il test del Dna rivelò che i resti di un rapito – riconsegnati al Giappone come prova di buona volontà – in realtà appartenevano a due persone diverse, causando un moto di sdegno tra la popolazione nipponica che spinse il governo ad elevare nuove sanzioni.
Le istanze nipponiche in merito ai rachijiken sono una concausa del fallimento del Six Party Process sulla questione nucleare a cui è stato chiamato a partecipare il Giappone. I colloqui, che sono stati intrattenuti tra l’agosto del 2003 e la fine del 2008, sono stati – a fasi alterne – osteggiati da Tokyo proprio perché considerava sempre prioritaria e imprescindibile la risoluzione della questione dei rapimenti.
In mezzo al processo dei colloqui del Six Party c’è stato il primo test atomico nordcoreano (9 ottobre 2006) che, oltre a spingere Tokyo a presentare all’Onu una proposta affinché tutte le attività economiche tra i membri delle Nazioni Unite e la Corea del Nord fossero messe al bando, elevò una serie di sanzioni unilaterali che andarono a colpire maggiormente le esportazioni verso Pyongyang e proibivano ai vascelli nordcoreani di approdare in Giappone.
Il test missilistico del 2009, quello atomico nello stesso anno, e l’affondamento della “Cheonan” seguito poco dopo dal bombardamento dell’isola di Yeonpyeong non fecero altro che inasprire la tensione tra i due Paesi con il Giappone palesemente schierato dalla parte americana dando il pieno sostegno alla risoluzione dell’Onu numero 1874 che elevava una serie di durissime sanzioni verso la Corea del Nord.
Gli anni recenti ed i “non rapporti” tra Giappone e Corea del Nord
A partire dal 2010 con Hatoyama e Kan, e anche con l’avvento del “falco” Shinzo Abe al governo dal 2012, il Giappone ha fondamentalmente mantenuto la linea tenuta sin qui da tutti i precedenti governi: risolvere la questione dei rapimenti e bloccare i programmi missilistico e atomico della Corea del Nord, che nel frattempo vedeva la salita al potere di Kim Jong-un.
La dottrina “neo-juche” di Kim, unita all’enfasi data dal songun, non hanno fatto altro che cementare l’equilibrio della minaccia tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone; di contro la Cina ha cominciato a prendere più le distanze dal suo vecchio alleato ai confini meridionali supportando le risoluzioni Onu proprio perché il comportamento nordcoreano minaccia più i propri interessi nazionali in confronto alla minaccia occidentale. Questo però, non dimenticando di avvisare gli Usa che un qualsiasi attacco preventivo da parte americana comporterebbe una reazione in difesa di Pyongyang da parte di Pechino.
Sul fronte delle relazioni tra Giappone e Corea del Nord non si segnala nulla di particolarmente eclatante: in agosto del 2012 le due parti si incontrarono in Cina per discutere del ritorno dei resti di alcuni soldati giapponesi e più tardi una delegazione nipponica visitò Pyongyang: i primi colloqui tra i due governi dopo quattro anni. Anche in questo caso si cercò di gettare le basi per una qualche forma di accordo ulteriore, ma ancora una volta non si giunse a nulla.
Il terzo test atomico nordcoreano, a febbraio del 2013, non ha fatto altro che espandere ulteriormente le sanzioni unilaterali da parte nipponica che hanno raggiunto il loro acme.
Del resto la situazione tra i due Paesi si era – e si è – formalmente cristallizzata: i traffici ed i commerci sono virtualmente ridotto a nulla e sostanzialmente non c’è più nulla da mettere sul piatto per eventuali sanzioni alle quali, peraltro, Pyongyang ha sempre risposto con atteggiamenti più aggressivi. L’unico fattore che potrebbe far leva è l’aiuto di tipo economico da parte giapponese, ma anche in questo caso la storia delle ultime decadi ha insegnato che ha avuto pochissimo effetto nel miglioramento delle relazioni.
Va comunque segnalata, anche in questo clima teso, la volontà di mantenere aperti dei canali diplomatici che potremmo definire “di riserva”: nel maggio del 2013 Isao Iijima – consigliere del Primo Ministro Abe – ha segretamente incontrato una delegazione nordcoreana in Cina che ha portato alla riapertura dei colloqui a Stoccolma e hanno condotto ad un ultimo meeting ufficiale tenutosi a Pechino.
Da allora lo scenario diplomatico è rimasto più o meno lo stesso con Tokyo che sponsorizza attivamente le risoluzioni sanzionatorie dell’Onu chiedendo parallelamente a Pyongyang che venga definita la questione dei rachijiken e la Corea del Nord che minaccia la “sparizione del Giappone dalle mappe”.
L’atteggiamento giapponese resta cauto anche ora che vengono aperti tavoli di trattativa sul disarmo della penisola coreana tra Nord, Sud e Stati Uniti che sembrano aver travalicato le pretese giapponesi sulla questione rapimenti. Il governo nipponico è comunque pronto a sostituire il nemico di sempre, la Corea del Nord, con l’altro avversario regionale che negli ultimi decenni sta dimostrando una sempre maggiore spregiudicatezza economica e militare: la Cina.