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I rapporti fra Turchia ed Iran sono sempre più stretti e, dopo l’Iraq e la Libia, il prossimo obiettivo potrebbe essere Israele. I due paesi, infatti, dopo aver raggiunto un’intesa sulla coesistenza pacifica in Siria, avvenuta su coordinamento e intermediazione russa nel quadro degli accordi di Astana, sembrano aver messo da parte le rivalità anche in altri teatri geopolitici perciò, adesso, lo scenario di un possibile allineamento in chiave anti-israeliana non appare più così remoto.

Un avvicinamento (im)prevedibile

Il 15 giugno è stata una data molto significativa per le relazioni turco-iraniane. Il capo della diplomazia di Teheran, Mohammad Javad Zarif, ed il suo omologo turco, Mevlut Cavusoglu, si sono incontrati ad Istanbul per discutere di cooperazione negli affari regionali e nella sicurezza. Il vertice, che è stato definito dai due come “molto produttivo“, si è concluso con la firma di un memorandum d’intesa incentrato su una maggiore collaborazione in campo diplomatico.

La bilaterale ha funto da apripista per due eventi di spessore. Il 15 giugno, Zarif ha approfittato della conferenza stampa per esprimere il supporto diplomatico di Teheran alle azioni turche in Libia. Due giorni dopo, mentre l’attenzione delle telecamere era ancora su Istanbul, i due paesi portavano avanti un attacco coordinato in Iraq avente come obiettivo alcune postazioni del Pkk. Due eventi spartiacque, soprattutto quest’ultimo, che hanno portato la cooperazione tra Ankara e Teheran ad un livello senza precedenti.

Sembrano lontani i tempi in cui i due paesi guerreggiavano in Siria e sebbene la diplomazia russa abbia giocato un ruolo fondamentale nel condurli sulla strada del dialogo, le premesse per una normalizzazione esistevano già, con o senza il coinvolgimento il Cremlino. Infatti, la logica del “il nemico del mio nemico è mio amico” applicata alle relazioni internazionali ha sempre dato luogo a partenariati inattesi ed alleanze inverosimili; ed è questo il caso.

Pur essendo ideologicamente agli antipodi, perché sia la Turchia erdoganiana che l’Iran khomeinista hanno ambizioni egemoniche sulla comunità musulmana mondiale, i due paesi condividono una serie di interessi in dei teatri comuni e, soprattutto, rivaleggiano con le stesse potenze, ovvero Israele ed il blocco petromonarchico e sunnita ruotante attorno al duo Egitto-Arabia Saudita. Neanche l’appartenenza all’Alleanza Atlantica, l’espressione militare dell’Occidente, si è rivelata un ostacolo per Ankara che, anzi, con i propri alleati guerreggia: dal caso della Saipem 12000 alla più recente invasione di una striscia di terra sotto sovranità greca.

L’avvicinamento tra i due paesi, quindi, pur non essendo del tutto scontato, non è mai stato implausibile; le premesse per un dialogo c’erano da tempo, ciò che mancava era qualcuno che facesse loro comprendere le opportunità derivanti dalla cooperazione. Quel qualcuno, ovvero la Russia, è infine arrivato e  Recep Tayyip Erdogan e Hassan Rohani hanno dimostrato saggezza nel lungo periodo.

I timori israeliani

L’Iran era alla ricerca di un’intesa strumentale con la Turchia da almeno sei anni. Nel 2014 si sarebbe tenuto un incontro segreto, in una località turca, tra esponenti delle Guardie della Rivoluzione e della Fratellanza Musulmana avente come obiettivo l’elaborazione di un piano d’azione comune contro Egitto ed Arabia Saudita. Il focus si è presto spostato dal contenimento dei rivali arabi ad Israele, paese considerato con ostilità sia dal neo-ottomanesimo che dal khomeinismo e sul quale sia Ankara che Teheran possono esercitare notevoli pressioni per mezzo dei loro tramite, ovvero i Fratelli Musulmani, Hamas, il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina, ed altre entità terroristiche.

L’interesse di entrambi i paesi per Israele è dato da diversi fatti: la consapevolezza che rappresenta il bastione dell’americanismo nel cuore del Medio Oriente, la popolarità della causa palestinese presso l’opinione pubblica musulmana, e lo status simbolico di Gerusalemme nell’immaginario collettivo, nella storia e nei testi sacri islamici.

L’auto-estromissione dell’Arabia Saudita dalla partita per la Palestina, poiché nel dopo-re Faysal il paese ha abbandonato le cause del pan-arabismo e del nazionalismo islamico in favore di un rapporto privilegiato con Stati Uniti ed Israele, ha fatto sì che l’agenda venisse dapprima recuperata dall’Iran, tornato ad essere uno dei poli della civiltà islamica a partire dal 1979, e dopo dalla Turchia, a partire dall’era Erdogan.

Alla luce dell’importanza rivestita dalla causa palestinese, soprattutto per le ripercussioni in termini di prestigio, era altamente possibile l’accensione di una rivalità tra Ankara e Teheran, ma la simultanea convergenza strategica fra Riad e Tel Aviv ha evitato che ciò che avvenisse e, oggi, è proprio la Palestina uno dei terreni dove la collaborazione turco-iraniana è più forte.

Alla vigilia dell’annessione israeliana di una parte della Cisgiordania, la classe politica turca ha iniziato ad utilizzare una retorica sempre più somigliante a quella degli iraniani. Nei giorni che hanno preceduto il vertice di Istanbul, il ministro degli affari religiosi turco, Ali Erbas, ha dichiarato che “la nostra lotta continuerà finché Gerusalemme non sarà completamente libera”, minacciando di mobilitare l’intera umma (ndr. comunità islamica) per tale scopo, mentre il ministro degli esteri, Cavusoglu, ha utilizzato toni ancora più duri: “La umma non abbandonerà mai [l’idea di] uno stato palestinese sovrano con Quds al-Sharif [ndr. Gerusalemme] come sua capitale”.

Tutto ciò sta accadendo sullo sfondo del ritorno in scena di Hamas che, dopo un periodo di oblìo e disorganizzazione, ha rotto l’isolamento diplomatico come palesato dall’invio di delegazioni ad Istanbul, Doha, Teheran e Mosca. La questione palestinese, pur non essendo mai caduta completamente nel dimenticatoio, negli anni recenti aveva perduto visibilità, e sono state proprio Turchia ed Iran a riportarla al centro dell’attenzione mondiale, sfruttando egregiamente il vuoto di potere lasciato dai sauditi e dalle altre potenze arabe-sunnite.

Le ripercussioni

Se il dialogo turco-iraniano si trasformasse davvero in un sodalizio, resistente e duraturo, alla luce delle loro alleanze e dei loro instrumenta regni sparsi per il globo, le ripercussioni per la divisione del potere in Medio Oriente e Nord Africa sarebbero profonde; si potrebbe assistere ad uno dei più importanti sconvolgimenti geopolitici nel mondo islamico dai tempi di Sykes-Picot, un vero e proprio incubo per il blocco di potere incardinato sul triangolo Washington-Tel Aviv-Riad.

Coordinamento e cooperazione equivarrebbe a cessare di giocare in partite geopolitiche e combattere in guerre per procura secondo lo schema dell’uno contro tutti. Ad esempio, in Yemen, dove gli Houthi hanno goduto, fino ad oggi, di un appoggio quasi esclusivamente iraniano, un’entrata in scena turca decisa e di peso comporterebbe un serio aggravamento della situazione per i sauditi. Dei segnali a questo proposito vi sono già, poiché la Turchia starebbe  sfruttando i porti somali per facilitare il traffico di armi ai ribelli yemeniti.

Gli effetti potrebbero essere notevoli anche in Libia, alla luce dei numerosi giocatori ivi coinvolti e dell’assoluta necessità, per Ankara, di trovare dei partner che, oltre a del supporto diplomatico e verbale, siano disposti ad inviare soldati ed armamenti. Altrettanto considerevoli potrebbero essere le conseguenze per la sicurezza nazionale di Israele, dato che la certezza di un supporto turco ad eventuali operazioni non convenzionali iraniane, potrebbe fungere da leitmotiv che spinga Teheran a riaccendere Hezbollah, entrato in un lungo sonno nel dopo-guerra del 2006.

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