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La Groenlandia con i suoi oltre 2 milioni di chilometri quadrati incastonati nel Mar Glaciale Artico ha sempre rappresentato una terra di frontiera ed oggi, con i cambiamenti climatici e geopolitici attualmente in atto, lo è ancora.

Oltre agli aneliti di indipendenza, quasi totalmente ottenuta dalla Danimarca, di Nuuk, si annovera di recente un attivismo particolarmente accentuato da parte di potenze straniere che vedono nella terra dei ghiacci un fondamentale terreno di conquista.

Oltre agli Stati Uniti, che nell’isola mantengono ancora una forte presenza militare erede dei tempi della Guerra Fredda in cui la Groenlandia faceva parte della famosa Dew Line (Distant Early Warning) ovvero di quella catena di radar di scoperta per tracciare i bombardieri dell’Unione Sovietica, anche la Russia e la Cina si sono dimostrate interessate ad estendere il loro braccio in quelle terre per diversi motivi.

Perché la Groenlandia fa gola alle potenze globali?

Ora che il governo di Nuuk sta cercando una sempre maggiore indipendenza da Copenaghen altre nazioni si stanno facendo avanti per costruire infrastrutture e per accaparrarsi le risorse minerarie dell’isola, rese più facilmente disponibili dal riscaldamento globale che, come vedremo in seguito, porta con sé un altro fattore geopolitico non secondario.

La Groenlandia, infatti, ha un enorme potenziale di sfruttamento minerario per quanto riguarda alcuni metalli preziosi – come l’oro e il platino – ma soprattutto per quanto riguarda alcune Terre Rare (in inglese Ree acronimo di Rare Earth Elements) che potrebbero essere estratte per un ammontare annuo di 60mila tonnellate ovvero pari al 30% del fabbisogno mondiale.

Secondo l’Usgs, il prestigioso servizio geologico nazionale statunitense, la Groenlandia ha infatti la possibilità di surclassare la produzione di Terre Rare cinese in pochi anni; Cina che, al momento, è la principale produttrice di questi elementi al mondo.

Sempre l’Usgs ci fornisce qualche dato: la Groenlandia potrebbe estrarre circa 500mila tonnellate/anno di due minerali (eudialite e feldspato) da cui si può estrarre, oltre alle Terre Rare, anche tantalio, zirconio e niobio, la cui quotazione sui mercati supera di gran lunga quella dell’oro.

Oltre a questi sono riconosciuti depositi di minerali di ferro, piombo, zinco, nickel, uranio e con ogni probabilità anche riserve di idrocarburi come gas naturale e petrolio, da ricercarsi in maggior parte nell’offshore groenlandese. Queste ultime due risorse, però, al momento ricadono per la maggior parte in aree del Mare Artico già appartenenti agli Stati che vi si affacciano – quindi Cina esclusa – e pertanto le uniche prospettive cinesi per uno sfruttamento diretto sono quelle di una possibile prospezione inshore data dallo scioglimento della calotta glaciale groenlandese.

Fattore secondario, ma non meno importante, è la questione dell’apertura alla navigazione del Mar Glaciale Artico lungo quello che viene chiamato “Passaggio a Nord-Est”. Il riscaldamento globale sta permettendo, infatti, il passaggio del traffico commerciale marittimo lungo la rotta che, per capirci, va da Murmansk allo Stretto di Bering, per più tempo durante l’anno così da renderla economicamente competitiva per le linee di navigazione.

La Groenlandia in questo senso offre degli approdi strategici per la navigazione dall’Oceano Atlantico verso il Pacifico lungo il Passaggio e rappresenta quindi uno snodo chiave per il controllo dei traffici commerciali.

La stessa Russia ha compreso bene questo importante fattore quando, proprio all’inizio di quest’anno, ha “nazionalizzato” il Mar Glaciale Artico di sua competenza.

Cosa vuole fare la Cina? 

La Groenlandia, visti questi fattori, ha un vitale bisogno di infrastrutture che le permettano di crescere e di conquistare la tanto agognata indipendenza finale dalla Danimarca.

In considerazione della geografia del Paese, quindi, diventano vitali i trasporti aerei e la Cina ha colto l’occasione per proporre la propria offerta di costruzione di tre aeroporti attraverso la China Communications Construction Company (CCCC), società detenuta in massima parte dallo Stato.

Il governo danese, per voce del ministro della Difesa Claus Hjort Fredericksen, si dice preoccupato – come riporta Defense News – dall’ulteriore penetrazione cinese in Groenlandia. Fredericksen sostiene infatti che i cinesi “sono giocatori nell’economia globale come tutti gli altri e dovrebbero essere trattati equamente, ma restiamo in guardia” aggiungendo poi che “chiaramente diamo il benvenuto alla cooperazione con la Cina nel campo commerciale, e finché lo scopo resterà tale non ci opporremo, ma guardiamo molto cautamente al problema che queste installazioni possano avere altri propositi, che potrebbero causare problemi”.

Quali sono i rischi?  

Il rischio della penetrazione cinese in Groenlandia è duplice. Da un lato, dal punto di vista militare, un’infrastruttura aeroportuale made in China potrebbe, nel medio termine, essere fonte di una penetrazione cinese anche di tipo militare/spionistico che creerebbe problemi all’ombrello difensivo nord della Nato che ha nella base di Thule il suo fulcro principale.

A Thule, infatti, c’è la sede del 21esimo Space Wing che con i suoi radar è adibito alla sorveglianza e all’allarme tempestivo per la difesa dai missili balistici intercontinentali, facente parte quindi della catena di allarme precoce del Norad e del Usstratcom che fa capo al Cheyenne Mountain Complex a sua volta collegato con altre stazioni principali intorno al globo, come quelle di Clear in Alaska e di Cape Cod in Massachusetts.

A Thule c’è anche la base aerea più a nord del globo e, date le considerazioni dette sin qui, è facile capire come gli Stati Uniti vogliano mantenere questo primato.

I timori americani, ma soprattutto danesi, sono che la Cina potrebbe costringere il governo di Nuuk a chiedere che gli Stati Uniti abbandonino le loro posizioni in Groenlandia o, peggio, che Pechino chieda ed ottenga l’utilizzo degli aeroporti per scopi militari, come ha riportato sempre a Defense News Jon Rahbek-Clemmensen, professore associato al Royal Danish Defence’s College Institute for Strategy. 

Un’ipotesi non troppo peregrina quella di Rahbek-Clemmensen, dato che la Cina potrebbe usare la carta degli investimenti commerciali e infrastrutturali per ricattare la Groenlandia, come avvenuto in altre occasioni con altri attori nazionali indebitati con Pechino per miliardi di dollari.

In questo senso, stante la dimensione ridotta del Pil groenlandese, anche un piccolo investimento, come quello per la costruzione di tre aeroporti, rappresenterebbe un vero macigno che peserebbe sull’economia e sulla politica di Nuuk.

Investimento che non sarebbe di certo il primo, dato che Pechino è già entrata parzialmente nell’attività di estrazione mineraria del Paese e ha già cercato, nel 2016, di acquistare una ex base americana. Acquisizione poi bloccata da Copenaghen che può ancora esercitare il diritto di veto negli affari esteri della Groenlandia.

A queste considerazioni va anche aggiunto il particolare momento geopolitico, in cui gli Stati Uniti hanno elevato dazi all’indirizzo dei prodotti europei – tra cui appunto l’acciaio colpendone quindi tutta la filiera – venendo a creare tensioni tra i rispettivi governi che potrebbero non aiutare a dirimere la questione in favore di Washington.

Questione che però non è ancora conclusa anche se il termine ultimo si avvicina in fretta: il parlamento danese, organo che ancora decide degli affari esteri di Nuuk, è chiamato a decidere della vexata quaestio in due sessioni: il 15 ed il 22 ottobre prossimi.  

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