Secondo la Portland Comunications, agenzia di comunicazione londinese che ogni anno redige una classica relativa sui livelli di Soft Power dei vari attori internazionali, l’Italia occupa stabilmente le prime 15 posizioni. Nella spiegazione è specificato che, nonostante la perdurante instabilità politica, storia, tradizioni ed altri elementi culturali rendono il nostro Paese molto attraente e in grado di risultare influente a livello globale. Le potenzialità dell’Italia nel campo del Soft Power sono molto elevate. Tuttavia non sempre la classe dirigente è in grado di sfruttarle. Un esempio in tal senso arriva dall’influenza non sempre mantenuta ad alti livelli nelle aree tradizionalmente legate al Bel paese.
L’esempio libico
La Libia è sempre stato un Paese, seppur tra alti e bassi, vicino all’Italia. E non soltanto ovviamente sotto il profilo geografico. A partire dal 1911 l’area progressivamente è diventata un possedimento italiano, l’uso del termine Libia con riferimento a questo territorio nordafricano ha avuto origine proprio durante l’era coloniale. Anche dopo l’indipendenza di Tripoli e durante i 42 anni di era Gheddafi tra Italia e Libia i rapporti sono rimasti molto stretti. A volte erano specchio del legame culturale tra le due sponde del Mediterraneo, in altri frangenti sotto un aspetto meramente politico il rapporto è apparso un vero e proprio matrimonio di convenienza. Complessivamente però, nonostante un’eredità coloniale costernata anche da eventi luttuosi, i libici hanno sempre guardato all’Italia. Un rapporto di amore e odio, testimoniato da due diversi episodi accaduti nel 2006: a febbraio, nel pieno delle polemiche insorte in tutto il mondo musulmano per la pubblicazione di vignette giudicate blasfeme su Maometto, una folla a Bengasi ha preso d’assalto il nostro consolato. Pochi mesi dopo, a Tripoli a luglio in centinaia per le strade, non senza l’imbarazzo delle autorità all’epoca rette da Gheddafi, hanno celebrato la vittoria dei mondiali di calcio da parte della nostra nazionale.
Con una Libia sprofondata nel caos a partire dal 2011, anno dell’uccisione del rais, il pericolo incombente per l’Italia è stato quello di perdere ogni appoggio e ogni propria sfera di influenza dall’altra parte del Mediterraneo. Eppure, nonostante errori di valutazione sulla gestione del dossier libico, l’influenza culturale è ben presente. A dimostrarlo anche la decisione, presa sul finire del 2020, di introdurre nuovamente l’italiano nei programmi scolastici delle scuole secondarie. Pochi mesi dopo l’ex premier Fayez Al Sarraj, quando era ancora in carica, ha dovuto ricorrere a delle cure per via di alcuni problemi di salute. I suoi ricoveri sono stati all’interno di cliniche romane, segno anche in questo caso dell’attenzione che i libici riversano verso il nostro Paese, visto come un riferimento più di altri. Il caso Libia mostra quindi come, al netto degli errori politici dell’Italia, il Soft Power italiano nelle ex colonie e nelle aree tradizionalmente vicine alla nostra influenza ha enormi potenzialità difficilmente tranciabili.
Dal corno d’Africa ai Balcani: dove il Soft Power italiano può incidere maggiormente
L’Italia ha altre aree dove la sua presenza, anche politica, è stata importante nel ‘900. Si tratta di zone strategiche, attualmente nel mirino di diverse potenze internazionali. Un primo riferimento è al Corno d’Africa. Qui c’è un’altra nazione il cui nome è stato usato per la prima volta durante l’era coloniale italiana, ossia l’Eritrea. Quando Roma ha iniziato, sul finire del XIX secolo, a possedere questi territori si narra che il presidente del consiglio Francesco Crispi abbia ascoltati i consigli dello scrittore Carlo Dossi: dare un nome classico in grado di richiamare l’appartenenza di questa parte dell’Africa al mar Rosso, verso cui il Paese si affaccia.
Da qui l’idea della denominazione Eritrea, derivante dal greco Erytros, che vuol dire per l’appunto “rosso”. Basta questo per comprendere il forte legame culturale con l’ex colonia. Asmara, la capitale, viene definita “la piccola Roma”: strade e monumenti principali sono stati costruiti dagli italiani negli anni ’30 e ancora oggi hanno le sembianze architettoniche ed urbanistiche di quel periodo. Ma un colpo molto duro al nostro Soft Power nell’area è stato dato nel settembre 2020, quando è stato chiuso l’istituto di scuola italiana ad Asmara, attivo dal 1903. Un episodio che testimonia le difficoltà dell’Italia.
Una circostanza riscontrabile in Somalia, altra ex colonia italiana. Qui a fare la voce grossa negli ultimi anni è stata la Turchia: copiosi gli investimenti di Ankara, sia a livello economico che culturale. Esistono oggi voli diretti tra Mogadiscio e Istanbul, non invece tra la capitale somala e Roma. L’Italia mantiene nel Paese africano un contingente militare, impegnato nelle missioni per la stabilizzazione delle istituzioni locali, ma non ha più l’influenza politica e militare di un tempo.
Le difficoltà in Africa fanno il pari con quelle in un’altra area strategica, ossia i Balcani. Nel 1997 Roma ha guidato la missione Alba, con la quale ha contribuito alla fine delle tensioni interne all’Albania. Da allora però, il nostro Paese ha progressivamente rallentato la sua azione di Soft Power. Eppure anche da queste parti l’Italia e la cultura italiana vengono viste con un certo interesse. In definitiva, le potenzialità sono ben evidenti e non sono relegate al passato. Manca però una visione strategica d’insieme. Basterebbe poco per riattivare numerosi discorsi interrotti nel corso di questi ultimi anni.