Sembra avviarsi verso il tramonto la breve ma intensa era Trump, a meno di stravolgimenti elettorali dell’ultimo minuto e/o della comparsa di prove inconfutabili che accertino l’esistenza di un complotto su larga scala per manipolare l’esito del voto, ed è il momento di capire come potrebbe evolvere la politica estera degli Stati Uniti sotto Joe Biden.

Negli anni di Trump si è assistito a ritirate strategiche in terreni di importanza secondaria, come l’America Latina, ad una rivoluzione diplomatica in Medio Oriente propedeutica ad un futuro disimpegno, alla strumentalizzazione dell’euroscetticismo in chiave antitedesca, all’apertura di uno scontro egemonico con la Cina e al proseguimento della linea del contenimento verso la Russia. Quel che è accaduto negli ultimi quattro anni è che, in breve, gli strateghi al servizio di Trump hanno appaltato la difesa di una serie di interessi regionali a potenze terze per facilitare il riorientamento di uomini e risorse verso un nuovo obiettivo: l’Estremo Oriente.

L’arrivo di Biden comporterà una rivisitazione profonda del modus operandi di Trump, specie per quanto riguarda Unione Europea e internazionale populista, ma è altamente improbabile un’inversione di tendenza nei confronti dei due obiettivi principali di Casa Bianca e Pentagono: Russia e Cina.

Un’eventuale fine della guerra commerciale con Pechino, più volte criticata da Biden perché antieconomica, non equivarrà, infatti, ad una cessione delle ostilità: lo scontro verrà spostato su altri settori, investirà altre dimensioni, come preannunciato dalla recente rimozione del Movimento per l’Indipendenza del Turkestan dall’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

La Russia, definita da Biden la “più grande minaccia” alla sicurezza nazionale di Washington e “alle fondamenta della democrazia occidentale“, dovrà valutare attentamente le proprie mosse nello scacchiere eurasiatico e aumentare il livello di vigilanza sul cosiddetto Estero vicino, ovvero lo spazio postsovietico, perché il futuro inquilino della Casa Bianca considera il Cremlino un nemico esistenziale, essendosi formato negli anni della guerra fredda, e porrà fine al clima di “cordiale ostilità” che ha connotato l’amministrazione Trump.

Una “questione personale”

Trump è stato accusato a più riprese dalla grande stampa liberale e dal Partito Democratico di essere un burattino di Vladimir Putin, il quale ne avrebbe favorito l’ascesa per mezzo di presunte interferenze elettorali nel 2016, ma, propaganda e illazioni a parte, il presidente repubblicano ha adottato verso il Cremlino una linea molto più dura del predecessore e scartato l’ipotesi di un asse in chiave anticinese suggeritagli da Steve Bannon e Henry Kissinger.

Negli anni di Trump si è assistito allo spostamento della mai morta cortina di ferro dalla Germania alla Polonia, all’apertura ufficiale di un’agenda per l’Asia centrale ex sovietica, consacrata dal tour di Mike Pompeo dello scorso febbraio negli –stan, alla continuazione della guerra dei gasdotti, all’inizio della corsa all’Artico, all’aggravamento del regime sanzionatorio e a un generale deterioramento delle relazioni bilaterali. In breve, la presunta sintonia fra Trump e Putin, che probabilmente esiste, non ha avuto riflessi di rilievo nella sfera pratica e dell’azione ed è questo l’unico elemento che dovrebbe essere preso in considerazione in una disamina sull’evoluzione dei rapporti russo-americani.

Biden porrà fine alla simpatia di facciata con l’omologo russo e al clima di cordiale ostilità tra i due Paesi, riportando la tensione ai livelli del secondo mandato Obama. Questo avverrà perché Biden è in primis un democratico, ossia rappresentante di quel partito che per quattro anni ha accusato Mosca di aver manipolato le presidenziali del 2016, ed è in secundis un liberale internazionalista, scuola Jefferson, ovvero un politico ideologizzato che ha una visione manichea del mondo.

Cosa potrebbe accadere?

Per capire quale linea di condotta potrebbe attuare Biden, oltre alle premesse personali e ideologiche, è necessario fare un breve excursus dei suoi rapporti con la Russia e i suoi alleati: negli anni ’90 è stato uno dei fautori della svolta antiserba dell’amministrazione Clinton, durante l’era Obama ha lavorato intensamente per un cambio di regime in Siria, appoggiato Euromaidan e la successiva implementazione del regime sanzionatorio, e, inoltre, ha dato avvia alla guerra dei gasdotti con l’annullamento del South Stream.

Biden è, alla luce del suo passato, della sua appartenenza partitica e del suo credo, in un certo senso prevedibile. Verrà mantenuto in essere il regime sanzionatorio, che è anche uno strumento utile a congelare a tempo indefinito un riavvicinamento tra Ue e Russia, ma la decisione di aggravarne il carattere dipenderà dal ruolo che la nuova presidenza ha in mente per l’asse franco-tedesco.

Al dossier sanzioni si lega la questione Nord Stream 2, che verrà risolta definitivamente sotto l’amministrazione Biden per semplici ragioni temporali. Non è da escludere a priori l’incremento delle pressioni su Berlino con la finalità di portare all’annullamento del gasdotto, ma, se il nuovo presidente intende realmente ripristinare il dialogo tra le due sponde dell’Atlantico, è più probabile che ne venga avallata la fine dei lavori in cambio della promessa di maggiori acquisti di gas liquefatto statunitense.

Tra scelte di campo e trappole

La preannunciata lotta all’internazionale populista, parte di un ampio disegno di promozione dei valori democratici nel mondo, avrà conseguenze anche per la Russia. Per quanto riguarda la scena europea, forze politiche di natura sovranista che si trovano attualmente al potere, come Fidesz, vedranno grandemente limitati i loro margini di manovra in politica estera, mentre partiti rilevanti ma all’opposizione, come Lega e Raggruppamento Nazionale, dovranno essere in grado di adattarsi al mutato clima alla Casa Bianca e fronteggiare la riduzione di sbocchi oltreoceano.

Vi è poi il caso di quei personaggi che Biden ha bollato come “autocrati”, primo tra tutti Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco si è rivelato un importante agente di Washington durante l’era Obama, come dimostrato dal ruolo giocato nella destabilizzazione della Siria e dall’abbattimento del Sukhoi-24 del 2015, e non è da escludere che Biden, memore di quegli anni, possa sfruttare la moltitudine di contraddizioni e fragilità che caratterizzano il patto di coesistenza russo-turco per disseminare ostacoli e trappole nell’intero spazio postsovietico e in Medio Oriente.

Il campo da gioco turco è particolarmente importante per due ragioni: Ankara dispone di strumenti per creare insidie al Cremlino in numerosi territori, come Gagauzia, Ucraina, Caucaso meridionale, Asia centrale e Siria, ma piegarsi ai dettami dell’amministrazione Biden equivarrebbe a ritardare a tempo indeterminato i piani di emancipazione geopolitica dall’Occidente, che passano inevitabilmente da migliori rapporti con Mosca, Teheran e Pechino. Prevedere cosa accadrà tra Russia e Turchia è, quindi, complicato: in parte dipenderà dalla strategia adottata di Biden, in parte dalla contro-strategia del Cremlino, ma la parola finale spetterà a Erdogan.

Il sogno dell’accerchiamento

Biden è noto per una convinzione molto curiosa, ma coerente con la sua identificazione nella scuola Jefferson: non crede nella spartizione del pianeta in sfere di influenza. Il suo pensiero è perfettamente condensato in un intervento datato 2009, fatto in occasione della 45esima Conferenza di Monaco sulla Sicurezza: “Gli Stati Uniti non riconosceranno l’Abcasia e l’Ossezia del Sud come degli Stati indipendenti. Non riconosceremo le sfere di influenza di nessuna nazione. Rimane nostra convinzione che gli Stati sovrani abbiano il diritto di prendere decisioni per sé e di scegliere le proprie alleanze”.

Coerentemente con il punto di cui sopra, Biden ha storicamente sostenuto i percorsi di integrazione di Georgia e Ucraina nell’orbita occidentale, da intendere come inglobamento nell’Ue e nell’Alleanza Atlantica. È stato proprio negli anni del duo Obama-Biden, del resto, che è avvenuto lo strappo tra Kiev e Mosca. La presidenza democratica dedicherà, nel complesso, un’attenzione di gran lunga maggiore rispetto all’amministrazione Trump a quei Paesi postsovietici che si trovano ai confini dell’Ue; non soltanto Georgia e Ucraina, i cui processi di integrazione riceveranno un forte impulso, ma anche Moldavia e Bielorussia.

Sullo sfondo di un ulteriore spostamento a Oriente della cortina di ferro, Biden potrà anche incamminarsi nella strada spianatagli dal predecessore nell’Asia centrale postsovietica – facendo leva, forse, sulla Turchia – e, ultimo ma non meno importante, tenterà di sfruttare l’aumentata visibilità di Aleksei Navalny e l’autunno caldo russo per minare le fondamenta stesse dell’ordine putiniano.

Quanto è difficile una normalizzazione?

Gli scenari fino a qui delineati sono il frutto di analisi effettuate a partire dal passato di Biden e dalla linea generale della Casa Bianca nei confronti della Russia, che ha tradizionalmente alternato contenimenti “morbidi” e “duri” ma senza mai abbandonare del tutto il sogno dell’accerchiamento. Una normalizzazione tra le due grandi potenze, per quanto irrealistica e difficile da concepire al momento, è comunque possibile.

Innanzitutto, è di importanza fondamentale rammentare che il Partito Democratico non è un monolite: al suo interno convivono una serie di scuole di pensiero, anche molto differenti tra loro, che contribuiscono a rendere vivaci e pluralistici i dibattiti riguardanti lo sviluppo della politica nazionale e internazionale.

Inoltre, anche se da ormai sei anni Russia e Stati Uniti sono separate da un muro insonorizzato, quella barriera potrebbe essere abbattuta – almeno in parte – in presenza di interessi coincidenti su dossier di rilievo mondiale, come ad esempio la lotta al terrorismo, il cambiamento climatico e l’aggiornamento dei trattati della guerra fredda.

La presidenza Biden, ad esempio, sembra che riserverà una premura speciale all’ambiente e al clima, ragion per cui è stato annunciato il reingresso negli accordi di Parigi, ai quali aderisce anche la Russia. La comune volontà di partecipare all’elaborazione di un’agenda globale per il clima potrebbe fungere da sponda per l’espansione della collaborazione su altri temi, anche radicalmente diversi, a patto che ragionevolezza e interesse collettivo prevalgano sulla rivalità ideologica e sugli egoismi nazionali.