L’esplosione che ha squarciato l’aereo sul quale viaggiavano il comandante della Wagner Evgenij Prigozhin ed il suo vice ha confermato, qualora non fosse stato già chiaro e nella maniera più eclatante possibile, il sistema di potere messo in piedi da Vladimir Putin. Secondo quanto affermato da gran parte degli analisti, il presidente russo ha così completato la trasformazione del suo Paese in uno Stato mafia che non può tollerare alcuna forma di dissenso contro gli ordini impartiti dall’alto.
Il peccato imperdonabile di cui si è macchiato il fondatore dell’organizzazione paramilitare è quello di aver cercato di marciare su Mosca per protestare contro la gestione della guerra in Ucraina da parte dei vertici militari, e quindi implicitamente contro lo zar. “Era un uomo di talento che ha commesso errori”, così l’ha ricordato il suo ex amico Putin. La fine violenta di Prigozhin rappresenta solo l’ultimo di una lunga serie di regolamenti di conti che, tra gli altri, hanno colpito Alexander Litvinenko, ex spia russa avvelenata nel 2006 a Londra, Anna Politkovskaja, giornalista “scomoda” assassinata nello stesso anno, e Boris Nemtsov, popolare esponente politico dell’opposizione freddato nel 2015 a due passi dal Cremlino. La lista si allunga se si aggiungono i tentativi di avvelenamento contro Sergei Skripal, ex spia russa, e i critici del presidente Alexei Navalny e Vladimir Kara-Murza. Numerose sono poi le morti misteriose in Russia e all’estero di personaggi in passato vicini al regime e poi caduti in disgrazia.
“Non siamo una gang. Non siamo un gruppo mafioso. Non cerchiamo vendetta come nel libro “Il Padrino” di Mario Puzo. Siamo una nazione. Una nazione basata sulle leggi”, questa la risposta di Vladimir Solovyov, conduttore televisivo russo, a chi provava a collegare Putin alla morte di Prigozhin. Dalle pagine del Financial Times il giornalista Gideon Rachman ha definito tale commento un classico esempio del detto francese “qui s’excuse, s’accuse” riconoscendo che molte delle azioni del presidente russo sono riconducibili ad un codice di condotta mafioso. Se non punito, ogni insulto al suo potere minaccia la stabilità del regime facendolo apparire più debole.
Come nelle vite parallele di Plutarco, Rachman fa notare alcune somiglianze nell’ambito dei rapporti con il mondo dell’illegalità intrattenuti dall’uomo forte russo e da un altro politico al di là dell’Atlantico, Donald Trump. Secondo la sua biografa Catherine Belton, negli anni Novanta Putin, all’epoca vicesindaco di San Pietroburgo, ha stretto legami con individui appartenenti al sottobosco criminale della città. Anche i servizi di intelligence di Mosca per i quali ha poi lavorato gestivano rapporti importanti con la criminalità organizzata.
Trump ha fatto invece fortuna nel settore delle costruzioni e in quello dei casinò muovendosi in un ambiente spesso borderline. Significativo appare che uno dei suoi principali consiglieri fosse Roy Cohn, avvocato di molte famiglie mafiose di New York. In politica estera al tempo della sua presidenza il miliardario ha dato spesso l’impressione di trattare Vladimir Putin, Kim Jong Un e Recep Tayyip Erdogan alla stregua di boss di clan rivali.
Trump non ha mai nascosto di nutrire una forte ammirazione per Putin e fece scalpore quando incontrando ad Helsinki il suo omologo russo dichiarò di credergli sconfessando così i report degli 007 americani che sostenevano l’interferenza della Russia nelle elezioni del 2016. Non è passato inosservato, inoltre, che per una curiosa coincidenza il giorno dopo l’omicidio di Prigozhin il tycoon sia stato incriminato da un tribunale in Georgia in base ad una legge antiracket adoperata proprio per contrastare la mafia.
Il presidente russo e l’ex presidente americano condividono una concezione piuttosto hobbesiana dei rapporti di potere dove la legge del più forte impera e le intimidazioni sono uno strumento legittimo. Con almeno un’importante differenza. Putin agisce incontrastato all’interno di uno Stato mafia plasmato secondo la sua volontà e per il quale non è contemplata alcuna forma di responsabilità legale e politica. Le incriminazioni di Trump dimostrano però che, nonostante le voci su un declino della democrazia a stelle e strisce, negli Stati Uniti lo stato di diritto rappresenta ancora un efficace argine alle derive autoritarie del potente di turno.