L’evento più atteso dell’anno si è da poco concluso ed è il momento di una lucida lettura a caldo. Durato molto meno del previsto – circa tre ore e mezza rispetto alle cinque inizialmente preventivate –, il vertice ginevrino tra Joe Biden e Vladimir Putin è avvenuto all’ombra di un trimestre di alta tensione e non ha tradito i pronostici più accurati: scaturito più per trovare un modo di gestire il disaccordo che per trovare un accordo, Ginevra 2021, più che essere un tentativo di replica di Ginevra 1985, ricorda molto da lontano Londra 1904.
Sulle orme di Delcassé
Il sito dell’incontro non deve trarre i lettori in inganno: Putin e Biden hanno scelto di dialogare laddove nel 1985 si diedero appuntamento Michail Gorbačëv e Ronald Reagan per gettare le basi per il trattato INF, catalizzando la fine della guerra fredda, ma i due vertici presentano più differenze che similitudini. Perché, tolto il fatto che l’attuale scontro egemonico, rispetto al 1985, non è in una fase discendente, ma ascendente, e accogliendo le vaghe similarità che accomunano Biden e Reagan – l’Alleanza tra le democrazie per difendere il Mondo libero minacciato dai nuovi piccoli Imperi del male –, fra Putin e Gorbačëv non v’è alcuna affinità – trattandosi, rispettivamente, di un riformatore conservatore disilluso dall’Occidente e di un utopista i cui errori di calcolo lo avrebbero trasformato nel “demolitore inconsapevole” dell’Unione Sovietica.
Putin e Biden come Gorbačëv e Reagan, dunque? No. Putin e Biden come Émile Loubet ed Edoardo VII – forse –, i capi di Francia e Regno Unito che nel 1904, convinti dall’abilissimo Théophile Delcassé, posero fine ad un millennio di ostilità intermittente con l’anelito di affrontare una superpotenza in divenire, impossibile da fermare singolarmente, la cui ascesa travolgente avrebbe potuto riscrivere il sistema internazionale: la Germania. E gli Stati Uniti del 2021, parimenti alla Francia del 1904, abbisognano di una Russia (temporaneamente) amica per combattere la vera minaccia di questo secolo: la Cina – non a caso definita una “sfida sistemica” durante l’ultimo vertice dell’Alleanza Atlantica.
I segni erano presenti
È all’interno di questo contesto, di questo tentativo di intesa cordiale – al quale, attenzione, i russi hanno semplicemente prestato l’orecchio –, che rimembra una partita a scacchi, dove ogni pedina viene mossa in direzione del re a cui fare scacco matto, che va inquadrato il (prevedibile) cambio di rotta di Biden, da noi preannunciato in tempi non sospetti e reiterato con forza alla vigilia dell’appuntamento ginevrino. Non era da escludere, avevamo scritto più volte sulle nostre colonne, disaminando l’evolvere degli eventi e conoscendo il prevedibile Biden, che la nuova amministrazione a stelle e strisce stesse seriamente pensando “di tentare l’azzardo più impensabile, cioè il gioco della carta Kissinger“.
A rafforzare la nostra ipotesi, che il 16 giugno è divenuta un fatto, un concatenamento di accadimenti e decisioni, il cui reale significato era stato maldestramente interpretato dai più: dal via libera (definitivo?) al Nord Stream 2 all’allontanamento tra l’amministrazione Biden e la presidenza Zelensky, dapprima scaricata durante la crisi nel Donbass e poi, più di recente, fragorosamente (e magniloquentemente) castigata davanti alle luci dei riflettori – si pensi, ad esempio, al rifiuto ad una bilaterale Biden-Zelensky all’antevigilia della Biden-Putin e alla successiva smentita relativa al prossimo ingresso dell’Ucraina nella Nato, un vero e proprio tentativo di sabotaggio del vertice di Ginevra.
I russi accetteranno la proposta di Biden?
Delineato il contorno generale, è il momento di provare a rispondere alla domanda delle domande: la Russia di Putin accetterà di porre transitoriamente fine al bellum perpetuum con gli Stati Uniti nel nome di un interesse che, soltanto parzialmente è percepito come comune, ovverosia lo stroncamento della rinascita dell’Impero celeste? Rispondere con certezza non si può, anche perché il vertice si è appena concluso, ma è comunque possibile azzardare un pronostico.
Iniziamo con il sottolineare qualcosa di estremamente importante: se Biden ha voluto tendere la mano a Putin, da lui definito un assassino ed una persona priva di anima, è perché negli Stati Uniti vige la consapevolezza che le circostanze richiedono un mutamento del modus operandi e che Donald Trump, in fin dei conti, aveva ragione a voler terminare la dispendiosa e controproducente linea del “doppio contenimento“, che ha condotto Russia e Cina a siglare un patto adamantino – che, sì, presenta tutte le caratteristiche di una veridica intesa cordiale – avente come obiettivo ultimo l’accelerazione della transizione multipolare, indi la de-occidentalizzazione del globo.
In gioco, pertanto, più che il destino delle relazioni tra Nuova Gerusalemme e Terza Roma, v’è il futuro del sistema unipolare, crescentemente traballante in quanto sottoposto ad un crescendo di pressioni dal basso provenienti dalla propagazione di nuovi poli di potere. E perché Biden abbia bisogno di Putin, con il quale è ideologicamente agli antipodi, è piuttosto chiaro: oggi, differentemente dagli anni del confronto a tutto campo sovietico-americano, l’ago della bilancia in grado di decidere le sorti dello scontro egemonico non si trova a Pechino, ma a Mosca. E Biden, proponendo all’omologo russo una “pace fredda” funzionale ad una prosecuzione della guerra fredda (quella vera, cioè con la Cina), perché sciente delle difficoltà e dei rischi associati al doppio contenimento, ha cercato di far pendere quell’ago verso di sé.
Diversi gli agnelli sacrificali che l’inquilino della Casa Bianca ha offerto sull’altare della tregua tattica, dal via libera al NS2 al silenziamento a tempo indefinito dello psicastenico triangolo della russofobia (Visegrad-Baltici-Ucraina), passando per l’ostentato corteggiamento in sede di vertice ginevrino – particolarmente significative sono state lo scambio delle rispettive linee rosse, la proposta bideniana di esentare l’Artico dalla competizione tra grandi potenze, la dichiarazione congiunta sulla ricerca della stabilità strategica e, ultimo ma non meno importante, il riconoscimento del reale status della Russia, che Barack Obama aveva bollato come una “potenza regionale” nel 2014 e che Biden, a Ginevra, ha invece qualificato come una “grande potenza” –, ma potrebbero non essere sufficienti.
Una lettura delle disamine provenienti dalla Federazione russa, nonché dei commenti di Putin in merito all’evento – ritenuto “abbastanza costruttivo” –, potrebbe essere utile al fine dell’elaborazione del pronostico. Perché, mentre a Washington la bilaterale svizzera sta venendo celebrata con una certa estasi – tanto sobria quanto limitata –, a Mosca sembrano regnare e prevalere diffidenza, pessimismo antropologico e disincanto. Il vertice è stato importante, scrivono all’unanimità, ma bisognerà vedere se Biden potrà (e/o vorrà) realmente mantenere le promesse fatte a Putin. Promesse che, nelle prossime settimane e/o nei prossimi mesi, potrebbero condurre alla de-politicizzazione dello Sputnik V, ad un calo delle tensioni tra polo nord e spazio postsovietico e ad un riavvicinamento tra le economie del blocco occidentale e della Federazione russa. E si presume che a Mosca, in cambio di questa boccata d’aria, sia stato chiesto un allontanamento da Pechino, quantomeno per quanto concerne sfere sensibili come la cooperazione negli attacchi ibridi all’Occidente, e/o di intercedere presso Xi Jinping, per persuaderlo ad entrare nei meccanismi che regolano la vita e gli affari della comunità internazionale – come gli accordi sul controllo degli armamenti strategici.
Il punto di cui a Washington potrebbero non aver colto pienamente la complessità, però, è il seguente: perché il Cremlino dovrebbe accettare la proposta di tregua tattica avanzata dalla Casa Bianca, corredata di piccoli olocausti, pur sapendo che ciò comporterebbe la fine delle proprie aspirazioni multipolari e, soprattutto, il barattamento di un’intesa funzionante (quella con Pechino) per una (quella con l’Occidente) che, più volte nella storia, si è (di)mostrata inattendibile, facile al naufragio e intrinsecamente votata all’implosione? Perché se è vero che gli Stati Uniti hanno bisogno della Russia per frenare la Cina, lo è altrettanto che la Russia ha bisogno della Cina per sveltire il ritmo del declino degli Stati Uniti; questo è il motivo per cui offrire una fugace pace fredda e agitare il “pericolo giallo”, particolarmente percepito e radicato a levante degli Urali, potrebbe non bastare.
La Russia, inoltre, non chiede e neanche desidera un cessate il fuoco, ma esige – e gli Stati Uniti ne sono a conoscenza – che venga rispettato il proprio spazio vitale, corrispondente al mondo postsovietico e bersaglio di pressioni costanti e crescenti dal dopo-guerra fredda ad oggi, e che le venga riconosciuto un ruolo da comprimaria nella gestione della comunità internazionale. Ultimo ma non meno importante, le grandi potenze non sono titolari di formae mentis da burattino, ma da burattinaio, perciò l’avance di Biden potrebbe fallire: alla Russia, più che un allineamento, andrebbe chiesto un non allineamento e, non meno importante, ne andrebbero ascoltati gli interessi e i timori.
Nell’attesa che fatti mai avvenuti e parole non proferite (ci) rivelino cosa verrà deciso nelle stanze del Cremlino, soltanto due cose sono certe: la prima è che la fase di transizione è terminata ieri, la seconda è che le ombre di Delcassé e Kissinger tormenteranno, almeno sino al momento fatidico (che, non per forza, potrebbe implicare una scelta di campo chiara e netta a favore di uno o dell’altro blocco), i sonni e i pensieri di Putin.