L’eco delle Primavere arabe non si è mai davvero esaurita e le recenti proteste in Giordania lo hanno chiaramente dimostrato. All’inizio del mese di giugno migliaia di persone sono scese per le strade di Amman chiedendo e ottenendo le dimissioni del primo ministro Hani al-Mulki, reo di aver promosso una riforma fiscale (sostenuta dal Fmi) particolarmente svantaggiosa per la classe media Giordana. Al suo posto, re Abdallah ha incaricato il ministro dell’Istruzione del governo uscente, Omar al-Razzaz. Anch’egli economista, laureato ad Harvard, Razzaz si è detto disposto a dialogare con i manifestanti per risolvere la crisi il prima possibile; in particolare ha intavolato trattative coi rappresentanti del gruppo Hirak Shabaabi (Movimento Giovanile), sindacati e società civile che hanno guidato le proteste delle scorse settimane.
Il piano di aiuti saudita per uscire dalla crisi
È chiaro che il dialogo non porterà a nulla senza stabilità economica e coperture degne di questo nome; di questo il sovrano Hashemita sembra esserne perfettamente consapevole. Per questa ragione ha chiesto aiuto ai paesi arabi del Golfo, in particolare a casa Saud con cui i rapporti non sono ultimamente idilliaci. Il sovrano Saudita Salman, l’emiro del Kuwait Sabah Al Ahmad Al Sabah e il sovrano di Dubai Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vice presidente e primo ministro degli Emirati Arabi, si sono riuniti stamattina a La Mecca insieme a re Abdallah e hanno deciso di iniettare nelle casse giordane ben 2,5 miliardi di dollari nel tentativo di stabilizzare le finanze del regno.
I soldi verranno depositati presso la Banca Centrale della Giordania e andranno a coprire le garanzie sugli eventuali prestiti che il governo di Ammam chiederà alla Banca Centrale. Si tratta di un aiuto essenziale per un Paese in costante deficit (oltre 700 milioni di dollari l’anno) e storicamente abituato a ricevere aiuti esterni. Il debito della Giordania ammonta a circa 40 miliardi di dollari, ogni anno il governo è costretto a pagare 1,2 miliardi di interessi. Il debito pubblico ha fatto schizzare verso l’alto i prezzi dei beni di consumo: solo nel 2018, il costo del carburante è aumentato di cinque volte e le bollette elettriche sono aumentate del 55%. Una crisi da cui è impossibile uscire nel breve periodo se non appoggiandosi ad aiuti esterni.
Un ricatto per allontanare la Giordania da Erdogan
Kuwait, Emirati Arabi e Arabia Saudita dunque, una triade niente male quando si tratta di finanze e ingenti capitali, ma estremamente insidiosa quando il trio verrà a chiedere qualcosa in cambio. Nell’incontro meccano, re Abdallah sarà stato senz’altro messo con le spalle al muro e presumibilmente costretto a cambiare l’asse geopolitico che il suo regno era riuscito faticosamente a ritagliarsi negli ultimi mesi.
Per salvare le finanze del regno, Abdallah dovrà garantire ai sauditi l’allontanamento dalla Turchia di Erdogan. L’assordante silenzio di Riyadh sulla questione relativa a Gerusalemme aveva infatti portato gli Hashemiti protettori di al-Aqsa a schierarsi con Ankara nello scontro (verbale) contro Israele e USA.
Così facendo i sauditi spezzeranno una volta per tutte l’asse turco-giordano che rappresentava una seria minaccia a causa del loro supporto incondizionato al Qatar. Dal 5 Giugno dello scorso anno il Qatar, reo di aver intrattenuto relazioni con l’Iran, è posto sotto embargo da parte delle potenze arabe del Golfo. Solo Turchia e Giordania si sono da sempre opposte alle sanzioni trovando così un terreno di dialogo stroncato però sul nascere dall’Arabia Saudita, per nulla disposta a vedere i giordani uscire dalla propria sfera d’influenza. A Riyadh sanno bene che una Giordania libera di agire in piena autonomia, rappresenterebbe un’incognita troppo rischiosa in un’area conflittuale come il Levante. Strategicamente è essenziale per lo schieramento anti-iraniano (Israele, Arabia Saudita e USA) mantenere la Giordania nella propria orbita
Una nuova Primavera Araba?
Consolidando l’economia giordana i sauditi eviteranno oltretutto il diffondersi di una seconda primavera araba che per le monarchie sunnite potrebbe trasformarsi in un mortale inverno. Il diffondersi del malcontento popolare è ciò che Riyadh teme maggiormente, per questa ragione ha concesso subito aiuti finanziari a re Abdallah. Già nel 2011, quando iniziava a montare la protesta in Tunisia, i sauditi siglarono un piano di aiuti quinquennale del valore di 5 miliardi di dollari con altre due importanti monarchie sunnite: Marocco e, appunto Giordania. Stabilizzare questi due Paesi fu allora di importanza vitale per i Saud che evitarono così di venire trascinati in rivolte di piazza che difficilmente sarebbero stati in grado di contenere senza l’uso della forza.
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Ora i cinque anni sono finiti, e gli aiuti provenienti dal Golfo si sono drasticamente ridotti portando la Giordania alla grave situazione finanziaria che sta vivendo. Abdallah ha dovuto a malincuore constatare la propria incapacità di disporre autonomamente del destino della Nazione: senza i dollari provenienti da Riyadh il Paese crollerebbe in pochi mesi. Sembra ormai che di questo molti giordani se ne siano accorti. Per questa ragione la piazza chiede a gran voce delle riforme strutturali, per evitare che la politica estera (e interna) dello Stato sia costantemente eterodiretta e il Regno venga trascinato in conflitti regionali.
Le proteste al momento sembrano essersi placate, ma in molti hanno constatato come il monarca Hashemita stia perdendo sempre più il controllo di larghe fette di popolazione, in particolare tra le nuove generazioni senza lavoro. Difficilmente questo nuovo pacchetto di aiuti servirà a risolvere i problemi strutturali giordani; molto più probabile che serva a placare momentaneamente gli animi della popolazione esasperata dalla crisi economica. La seconda primavera araba è dunque solo rimandata.