Chi a Pechino ha accesso allo Zhongnanhai, il complesso di edifici situato ovest della Città Proibita che ospita la sede del Partito Comunista Cinese e del governo, sa perché Xi Jinping è stato soprannominato il nuovo imperatore della Cina. L’attuale Presidente cinese è molto più che il politico più importante dello Stato più popolato al mondo, anche se già questo basterebbe per entrare nei libri di storia. Xi è capo di tutto ciò che conta in Cina, compreso esercito e Partito, e le sue idee sono addirittura entrate nella Costituzione.

Il nuovo imperatore

Fino a oggi, sia in patria che all’estero, Xi Jinping non aveva fallito un colpo. Mai un evento era stato in grado di sminuire la sua leadership, neppure la guerra dei dazi mossa dagli Stati Uniti per indebolire la Cina. La Trade War, anzi, ha contribuito a rafforzare il nazionalismo cinese e creare nuove prospettive economiche per l’indipendenza di Pechino nei settori chiave dell’economia. Eppure il presidentissimo cinese si è dovuto arrendere ai circa due milioni di manifestanti scesi nelle strade di Hong Kong per protestare contro la legge sull’estradizione chiesta da Pechino per l’ex colonia britannica.

Un limite al potere di Xi

Sabato scorso Xi Jinping ha festeggiato il suo 66esimo compleanno in Tagikistan in compagnia di Vladimir Putin. Nei giorni in cui a Hong Kong stava scoppiando l’inferno, Xi si trovava in Asia Centrale per affari di Stato e, la lontananza da Pechino, ha paradossalmente contribuito a tenere al sicuro il Presidente dalle polemiche. Nessuno, tuttavia, pensava che alla fine i manifestanti avrebbero costretto le autorità hongkonghesi a sospendere la discussione sulla legge sull’estradizione. Come ha riportato il New York Times, la Cina continentale voleva andare fino in fondo ed era contraria alla decisione del governo locale di Hong Kong di sospendere la discussione legislativa; le proteste erano tuttavia così pesanti che insistere ancora avrebbe potuto causare una nuova Tienanmen e, soprattutto, a una grande perdita negli affari.

Il possibile effetto boomerang

La Cina ha quindi dovuto incassare uno stop inaspettato per un provvedimento che sembrava ormai certo: chiara dimostrazione che esistono ancora dei limiti all’immenso potere di Xi Jinping. Anche se Pechino giustifica la sospensione come un’attesa strategica, è indubbio che la fumata nera rappresenti una sconfitta per Xi. Il rischio è che le proteste di Hong Kong possano contagiare altre zone calde della Cina, come il Tibet, lo Xinjiang, o addirittura zone rurali rimaste fuori dal processo di sviluppo economico cinese. Non solo: in seno al Partito i (pochi) rivali di Xi potrebbero rialzare la testa e usare lo smacco di Hong Kong per delegittimare il Presidente.

Salvaguardare l’immagine del leader

La censura cinese è già al lavoro per evitare che le notizie della vittoria dei manifestanti hongkonghesi vengano utilizzate in chiave anti Pechino, sia per colpire Xi Jinping che per criticare le politiche dello Stato. Se l’immagine di Xi dovesse anche solo venir scalfita dalle proteste di Hong Kong, l’aura del Presidente rischierebbe di svanire come neve al sole. E in quel caso per la Cina sarebbe più difficile imporsi come quello Stato guidato da un super leader come dice di essere.

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