I primi di giugno la Giordania è stata teatro di dure proteste – le più grandi manifestazioni degli ultimi anni nel Paese – contro le politiche di austerità economica decise dal governo per far fronte alla difficile situazione delle finanze pubbliche. Scontri tra dimostranti e polizia sono avvenuti nella capitale Amman dove gli agenti hanno sparato gas lacrimogeni e bloccate alcune strade per impedire alla folla di avvicinarsi al palazzo del governo. Diverse migliaia di manifestanti hanno scandito slogan contro il governo e chiesto al re di allontanare il premier, Hani Mulki.
I manifestanti sostengono che la proposta di legge fiscale, sostenuta dal Fondo Monetario Internazionale, danneggerà i poveri e la classe media. Re Abdallah II di Giordania ha così incaricato lunedì 4 giugno Omar Razzaz, già ministro dell’educazione ed economista con lunga esperienza regionale e internazionale, come nuovo premier, dopo che il suo predecessore è stato costretto a dimettersi. All’inizio di quest’anno sono scoppiate proteste anche a Karak e in altre città sullo stato perenne di difficoltà dell’economica del paese.
La Giordania sta attraversando una dura crisi. Gli investimenti dal Golfo sono crollati negli ultimi due anni e hanno contribuito a innescare la pericolosa congiuntura. I motivi sono politici. Prima Re Abdullah si è riavvicinato ad Assad perché teme le infiltrazioni di gruppi salafiti in patria e ha ostacolato gli aiuti ai ribelli attraverso il confine giordano. Poi ha assunto una posizione rigida sulla questione di Gerusalemme nonostante le pressioni di Riad e Abu Dhabi.
La rivalità con i Saud risale all’inizio del secolo, quando gli hashemiti, discendenti della tribù del Profeta, erano i custodi della Mecca e Medina e poi furono soppiantati dal Regno saudita. Ora sono i “custodi” della Moschea Al-Aqsa e non intendono abdicare anche a questa funzione. Ma i sauditi hanno tagliato anche le forniture di petrolio a prezzo di favore e ora Re Abdullah è nei guai.
La scintilla che ha causato questa esplosione di proteste è stata I’aumento del prezzo del pane che è quasi raddoppiato e le tasse sul carburante che sono aumentate dal 24% al 30%. La Giordania spende 1,2 miliardi di dollari l’anno (il 9% del suo bilancio) per sovvenzionare cibo, carburante e acqua. Ma l’austerità sta rendendo impossibile vivere per molti giordani. Il tasso di disoccupazione è del 18%.
All’incrocio tra il Levante e il Golfo, la Giordania sembrerebbe in un posizione invidiabile. Infatti nel 2010 la Siria e l’Iraq hanno assorbito quasi il 20% delle esportazioni della Giordania. Ma dopo che l’Isis ha conquistato una vasta area dell’Iraq nel 2014, la Giordania ha dovuto chiudere il confine. Le esportazioni sono diminuite del 68% nei due anni successivi.
L’unica relazione proficua era con l’Arabia Saudita. Un vicino ricco di petrolio che importa quasi tutto. Poi i prezzi del petrolio sono crollati e l’economia saudita è entrata in recessione. Lo scorso anno le esportazioni sono diminuite del 27% rispetto al 2015.
In passato il governo giordano ha affrontato le crisi spendendo di più. Mentre la primavera araba imperversava nella regione nel 2011, il re aumentò i sussidi e aumentò la paga dei lavoratori pubblici. Uno su tre giordani lavora per lo stato. Molti iniziano a 18 anni e conservano questi lavori per sempre. Ma gli sforzi per tagliare gli stipendi pubblici ora incontrano una forte opposizione.
Ma i problemi del paese sono causati anche da altri fattori. Un attacco terroristico da parte dello Stato islamico nel 2016 ha fatto fuggire i turisti. Il regno potrebbe investire di più in questo settore, che impiega solo 50.000 giordani. La Giordania vanta incredibili rovine, come il parco archeologico di Petra, ampi deserti, come lo spettacolare Wadi Rum e il Mar Morto.
Gli stati occidentali e del Golfo considerano la stabilità della Giordania strategica per la regione. Nel 2011 il Consiglio di cooperazione del Golfo ha consegnato 5 miliardi di dollari per aiutare il re a superare la primavera araba. Nel 2016, la Giordania ha raccolto 290 dollari a persona in aiuti allo sviluppo. A febbraio l’America ha promesso aiuti per 6,4 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
Gran parte di questi aiuti vanno però ai rifugiati, altro problema. Il governo ha speso 10 miliardi di dollari per far fronte all’afflusso. E la Giordania ospita 656.000 siriani fuggiti dalla guerra. In più re Abdullah ha mal disposto i sauditi quando ha inviato solo un piccolo contingente per unirsi alla lotta di Riad contro i ribelli Houthi in Yemen. Anche sul piano delle relazioni internazionali il ruolo della Giordania è stato ridimensionato. Mentre prima lil regno era un interlocutore che faceva da intermediario con Israele, gli stati del Golfo ora parlano direttamente al loro ex nemico. Tutto ciò ha ridimensionato il valore strategico del paese.
Ma un altro problema più grande potrebbe incombere sul paese. La maggior parte dei membri del CCG vogliono sostituire i lavoratori migranti con i propri cittadini. Oggi 800.000 giordani lavorano nel Golfo e l’anno scorso hanno mandato a casa 2,4 miliardi di dollari. Se si realizzasse il piano sarebbe un altro duro colpo all’economia giordana.
Ma il paese prepara le contromosse: vuole dare attuazione ad un piano da 140 milioni di dollari per ridurre il numero di lavoratori migranti nel paese nei prossimi cinque anni. Più di 600.000 egiziani infatti vivono in Giordania, insieme a migliaia di altri stranieri che inviano 1,5 miliardi di dollari a casa ogni anno. Si parla anche della creazione di una zona di libero scambio con il Kenya nel porto di Aqaba sul Mar Rosso, per sfruttare nuovi mercati in Africa. E il governo progetta di investire miliardi in nuove infrastrutture. Si sta costruendo un “nuovo centro” ad Abdali, un quartiere periferico di Amman. Si spera che diventerà come una Dubai in miniatura. Tanti i progetti, ma per ora il paese, colpito da dure proteste, è in bilico. Non ci resta che stare a guardare.