Porto Rico è ufficialmente in crisi. Politica, economia e, in senso lato, sociale. Il governatore dell’isola caraibica, Ricardo “Ricky” Rosselló, ha annunciato le sue dimissioni a partire dal 2 agosto, dopo 12 giorni di proteste che avevano visto scendere in piazza 500 mila di persone. Niente male se si pensa che l’intero stato ne conta 3,7 milioni.

Il detonatore della rivolta è quello che è stato definito lo scandalo Telegramgate, Chatgate o Rickyleaks. Lo scorso 13 luglio il Centro di Giornalismo Investigativo di Porto Rico ha pubblicato 889 messaggi intercorsi via Telegram tra il governatore e 11 suoi collaboratori, tutti contenenti commenti sessisti e omofobi. L’onda mediatica si è scagliata in particolare sulle parole rivolte a Carmen Yulín Cruz, sindaca del capoluogo San Juan, chiamata più volte “puttana” e soggetta alle mire – a suo avviso sarcastiche – del segretario alle Finanze Christian Sobrino, bramoso di spararle.

Si sono concentrati poi sull’orientamento sessuale della pop star Rocky Martin, tra i portabandiera di questa protesta, definendolo machista al tal punto da essere gay solo perché non considera le donne alla sua altezza. La caduta diplomatica ha colpito a cascata anche temi drammatici, come le vittime dell’uragano María, paragonando i numerosi morti ad ammucchiate negli Istituti di Medicina Legale. Il tutto aggravato dalle ammissioni di intrallazzi, favoritismi e corruzioni clientelari di appalti e contratti. Se tale circostanza aveva inizialmente spinto solo il segretario di Stato Luis Rivera Marin e il chief financial officer dell’Aafaf (Autoridad de Asesoría Financiera y Agencia Fiscal) Christian Sobrino alle dimissioni, ben presto il castello governativo ha perso 14 esponenti e funzionari dell’amministrazione di Rosselló, tra cui gli 11 apparsi nella chat.

A chiusura di un ciclo iniziato male, lo scandalo della chat si aggiunge a quello per presunta corruzione accaduto alcuni giorni prima. In quel frangente sono stati arrestati 6 alti funzionari della pubblica amministrazione portoricana, colpevoli – questa volta su Whatsapp – di essersi autosmascherati su fondi federali per un valore superiore a 17 milioni di dollari. Un colpo, quello politico, che ha come cassa armonica uno spettro economico a dir poco preoccupante: impopolare fin da subito per la gestione della catastrofe dell’Uragano María, il governo Rosselló, nel maggio del 2017, ha dichiarato un default da 70 miliardi di dollari. Altro che 51esimo stato americano. La crisi economica del Paese è iniziata nel 2000, peggiorando dopo che gli Stati Uniti abolirono nel 2005 le esenzioni fiscali per le società statunitensi residenti in Puerto Rico. In quanto stato non indipendente (è stato dichiarato “Commonwealth of Porto Rico”), il Paese è soggetto a vincoli federali che spesso ne limitano le manovre finanziarie.

E lo shock che subirà il mercato nazionale, pertanto, si presta a facile lettura: la fragilità economica assumerà maggior peso in termini di sicurezza e ordine pubblico, mentre le storture politiche potrebbero affossare il Paese a uno stato di insolvenza sovrana.

Come se non bastasse, Wanda Vazquez Garced, il ministro della giustizia di Porto Rico designata per il dopo Ricardo Rossello, ha complicato maggiormente lo scenario, annunciando il ritiro in quanto “non interessata al posto di governatrice”. A rigor di Costituzione, l’incarico sarebbe toccato al segretario di Stato, il cui posto, al momento, è vacante dopo le dimissioni di Luis Gerardo Rivera Marin.
Nel frattempo si naviga a vista, in acque torbide e movimentate. Puerto Rico sprofonda senza appigli a cui aggrapparsi, escludendo la corsa alle urne e un intervento militare. L’unica scialuppa potrebbe arrivare da Madre Usa, che ad oggi, tuttavia, non ha dato ancora segni di reazione.





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