La singolar tenzone tra popolo ed élite in Francia non è cosa nuova. Se è vero che l’avanzata elettorale del Rassemblement National guidato da Marine Le Pen, che si sta affermando soprattutto in chiave dicotomica contro Emmanuel Macron e tutto ciò che rappresenta, viene considerato da molti come un effetto tangibile della cosiddetta “rivolta dei popoli”, è anche vero che il concetto di scontro “di classe” è da secoli parte della cultura politica francese.

Già nel lontano 2015, la Le Pen, che allora guidava il Front National prima del riposizionamento meno “antisistema” e del cambio di nome, disse che l’affermazione del suo partito alle elezioni regionali francesi fosse “la rivolta del popolo contro le élite”. I cittadini, secondo la Le Pen, non sopportavano più il disprezzo di una classe politica che per anni non aveva fatto altro che difendere i propri interessi.

La chiave narrativa che aveva caratterizzato gli anni a cui faceva riferimento la première dame della destra francese, era quella di fare gli interessi delle élite senza, ovviamente, che il popolo se ne accorgesse. Arringarlo con la volontà di smascherare i poteri forti venne così considerato un elemento di novità. Nel 2017, però, la storia cambiò, con la comparsa di una sorta di cigno bianco della politica francese: Macron. Uno che, avendo osservato attentamente il processo di crescita del Front National pensò che i gruppi di potere potessero esserne così spaventati da aver bisogno di un cavaliere senza macchia e senza paura capace di rassicurarli, ponendosi apertamente come un uomo che piaceva alle élite. Anzi, facendo sua l’intenzione di mantenere lo status quo respingendo qualsiasi afflato rivoluzionario.

En Marche mescolò allo stesso tempo anche le carte della mappa politica francese, superando tanto la contrapposizione tra destra e sinistra quanto quella verticale tra popolo ed élite, puntando invece sul dialogo tra le due “fazioni”. Eloquente, in questo senso, la scelta di alcuni candidati, come Cédric Villani, celebre matematico vincitore nel 2010 della medaglia Fields (l’equivalente del Nobel), direttore dell’Institut Henri Poincaré di Parigi. Uno con l’appartamento milionario in pieno centro e con la cravatta Lavallière al collo che diceva di non essere né di destra né di sinistra e di volersi rapportare con il popolo.

Macron, con queste mosse, intendeva battere la Le Pen negando alla radice il suo caposaldo elettorale: non serve dover dipingere una bandiera politica con i cahiers de doléances dei francesi, con i problemi che percepiscono, che li angustiano, e che i privilegiati non possono capire. Non serve perché lui, l’uomo d’élite, il tecnocrate, sarebbe stato pronto ad ascoltarli tanto quando la “populista” Marine. Anzi, di più. Visto che a differenza di Marine, brava ad arringare le folle ma meno a stilare programmi di riforme, un contenitore di “competenti” come quello di Macron, senza la compromissione ideologica, avrebbe potuto ricorrere alla tecnica per risolvere i problemi di tutti. È così che vinse le elezioni del 2017.

Sentendosi intortato, però, il popolo la sua appartenenza iniziò a rivendicarla poco dopo, con la comparsa dei gilet gialli, ideati quasi per caso dalla popolana Jacline Mouraud per combattere l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e dei carburanti. Problemi comuni che l’uomo delle élite Macron stava dimostrando di non poter capire. E Le Pen, specie nelle campagne, nelle regioni de-industrializzate e nella frangia meridionale della Francia, colpita soprattutto dai temi dell’immigrazione e dell’identità nazionale, continuò a fatturare consensi.

Oltre che riproporre con forza la contrapposizione popolo-élite, la le Pen cominciò a lanciare persino qualche amo retorico verso sinistra, evocando più volte il concetto marxista di “valore-lavoro”, proprio per far comprendere agli elettori che i residuati ideologici del Novecento non servivano più, l’unica cosa davvero utile era rappresentare le rivendicazioni dei francesi “autentici” e combattere per loro battaglie sociali, civili, economiche e politiche. Così facendo, e una volta superato lo stato d’ebbrezza macronista, la Le Pen ha deciso di ritornare al passato titillando l’endemico istinto rivoluzionario dei francesi.

Il politologo Yves Mény, già presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze, in un’intervista a La Stampa ha spiegato: “I partiti populisti francesi e italiani, la Lega e il M5S, sono partiti di protesta, prima che di governo. Hanno costruito la loro fortuna elettorale sulla critica alle élite e sull’invasione del territorio nazionale da parte degli stranieri. Ci sono punti in comune da questo punto di vista. Eppure le differenze sono molto importanti. Il sistema politico italiano è l’antitesi di quello francese: innanzitutto, il sistema proporzionale ha permesso a queste forze italiane di conquistare posizioni forti, mentre fino ad ora in Francia i partiti estremisti sono stati messi in secondo piano perché non potevano fare alleanze con altri partiti. Sono stati sistematicamente respinti in terza o quarta posizione. Anche a livello costituzionale ci sono enormi differenze. C’è una grande differenza culturale e quindi politica tra l’Italia e la Francia, la Francia è un Paese di rivoluzione, di opposizione e di polarizzazione, mentre l’Italia, fin dalla sua nascita, è un Paese di compromesso, anche di compromissione a volte, di trasformismo”.

Ecco, in un “Paese di rivoluzione” come la Francia col passare dei mesi quello che inizialmente sembrava un contenitore di conforto, il macronismo, volto alla riscoperta in chiave positiva del neoliberismo nell’economia, al rilancio del prestigio francese in politica estera, all’integrazione degli immigrati di nuova generazione nei quartieri disagiati, si è trasformato in una sorta di chimera, con la riforma del codice del lavoro e il rifiuto di indicizzare le pensioni che hanno scontentato i ceti meno abbienti, con nuove catastrofi migratorie, con il crollo dell’impero neocoloniale in Africa.

Il malcontento diffuso ha mantenuto la peculiarità dell’assenza di colore politico, con lo schema classico della divisione sinistra-destra ormai poco rappresentativo, ma ha spinto i cittadini da un lato a disaffezionarsi completamente alla politica dopo la “delusione Macron” e dall’altro a spingere gli elettori tanto verso la “vecchia destra” (Le Pen) quanto verso la “vecchia sinistra” federata dal politico anti-globalista di sinistra Jean-Luc Mélenchon, molto gettonato tra i gilet gialli e le forze anti-sistema che vedono più in Macron che nella Le Pen il male assoluto.

Se infatti élite sono solite combinare una piattaforma politica di “sinistra” (liberalismo radicale come difesa delle minoranze) e un’economia di “destra” (protezione del capitale transnazionale), e Macron incarna perfettamente questi assunti narrativi, il popolo nel 2022 continua a dimostrare in ogni occasione possibile di desiderare l’esatto opposto, ossia la critica all’ultraliberismo e il rifiuto del multiculturalismo.

Ecco spiegato anche il motivo per cui temi come la guerra in Ucraina nelle elezioni francesi non hanno rappresentato un fattore. Da un lato perché la Le Pen ha scelto, visto quanto accaduto il 24 febbraio, di rivedere il suo tradizionale assunto in politica internazionale, quello cioè di riuscire ad intrattenere rapporti con tutti (anche con Vladimir Putin) per salvaguardare l’interesse della Francia. Dall’altro perché Macron ha compreso che puntare il dito contro la Le Pen “amica dei russi” sarebbe potuto essere un autogol visto che per il popolo francese un nemico delle élite occidentali come il Cremlino avrebbe potuto finire addirittura per riscuotere una certa fascinazione.





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