Da quando la guerra civile è scoppiata in Siria, in centinaia di migliaia sono scappati dalla repressione delle proteste anti-regime verso il vicino Libano. Più di dieci anni e molti tentativi di rimpatrio più tardi, il Paese dei cedri, alla ricerca di un equilibrio interno, ha iniziato a deportare i rifugiati siriani oltre il confine, con il rischio di violare il principio di non-respingimento. Piuttosto di tornare in Siria, i rifugiati si dicono pronti ad affrontare la traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa.

I tentativi di respingimento

Da tempo le autorità libanesi spingono i rifugiati siriani a rientrare in Siria con svariati tentativi di rimpatrio che vengono descritti come volontari, ma che numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato come forzati. Le Ong affermano che gran parte dei rifugiati che hanno riparato in Libano sono stati perseguitati in patria per aver contestato il governo, pertanto si rifiutano di credere che il ritorno in Siria sia per loro e le loro famiglie un’opzione sicura. L’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite assicura che controlla da vicino la vicenda, continuando a sostenere il rispetto dei principi di legge internazionali e la protezione dei rifugiati dal refoulement, ovvero il ritorno forzato di rifugiati o richiedenti asilo in un Paese dov’è possibile che vengano perseguitati – in questo caso sulla base delle loro opinioni politiche.

Nelle ultime settimane l’esercito ha intensificato la stretta sui siriani senza documenti. Secondo fonti umanitarie sul campo che hanno parlato ad Afp, dei 450 arresti documentati nelle ultime settimane, almeno 66 sono finiti con la deportazione. Fonti intervistate da Asharq al-Awsat confermano di aver assistito ad un aumento dei raid dell’esercito libanese nelle comunità siriane di Beirut, nella zona del Monte Libano e nell’area di confine: i migranti che cercano di varcare la frontiera senza i documenti necessari vengono arrestati e poi deportati in Siria.

Le autorità libanesi sostengono infatti che i centri di detenzione dell’esercito sono sovraffollati e le altre agenzie di sicurezza libanesi rifiutano di accogliere i rifugiati arrestati, “pertanto – ha affermato un ufficiale – l’esercito ha dovuto implementare questa misura per metterli fuori dai confini libanesi”. Lo stesso graduato ha comunicato ad Afp che le autorità libanesi non hanno coordinato gli sforzi con Damasco, pertanto alcuni dei rifugiati espulsi sono poi ritornati in Libano con l’aiuto di trafficanti che hanno fatto pagare loro 100 dollari a persona.

Un ufficiale della sicurezza di Beirut ha aggiunto che molti di quelli entrano in Libano illegalmente hanno in realtà un permesso di lavoro o un documento d’asilo, ma tendono a passare il confine tramite corridoi illegali per evitare che il loro nome sia registrato alla Sicurezza Generale, l’ente libanese che gestisce le questioni relative agli stranieri nel territorio nazionale. Il rischio è infatti che Unhcr, una volta informato dell’attraversamento dalla Sicurezza Generale, rimuova il loro status di rifugiati. Questa modalità è impiegata dai siriani anche per evadere la misura del governo di Damasco che stabilisce l’obbligo di cambiare 100 dollari in lire siriane all’entrata nel Paese.

Dodici anni in Libano

Da quando il governo di Damasco ha ripreso il controllo sulla maggior parte del territorio nazionale, diversi Paesi che ospitano grandi numeri di migranti siriani hanno cercato di espellerli citando la fine delle ostilità. Il Libano ospita oggi il maggior numero di siriani e in generale il maggior numero di rifugiati per capita di tutto il mondo; il territorio limitato e la vicinanza con i territori palestinesi e la Siria appunto giocano un ruolo fondamentale nell’equazione. Dall’inizio dell’esodo nel 2011, i siriani si sono stanziati in massa in Libano: gli ufficiali di Beirut dichiarano che il Paese ospita circa due milioni di rifugiati siriani, mentre le Nazioni Unite ne certificano circa 830mila.

Dal canto suo, dal 2019 il Libano è impantanato in una crisi economica senza precedenti, che la World Bank ha definito come una delle peggiori della storia moderna, ulteriormente peggiorata dall’esplosione al porto, la pandemia da Covid-19 e la crisi dei carburanti. La percezione che la propria situazione economica e occupazionale sia compromessa dalla massiccia presenza di rifugiati ha alimentato negli anni un forte sentimento anti-siriano tra i cittadini libanesi. Nel grande caos della politica settaria libanese, alcuni politici attribuiscono ai rifugiati la colpa della crisi del Paese. Di recente infatti il ministro per gli Affari Sociali ha denunciato “gravi cambiamenti demografici” in corso, avvisando che i libanesi corrono il rischio di “diventare rifugiati nel loro stesso Paese”. Negli ultimi anni, già diversi governatorati hanno imposto restrizioni al movimento dei siriani sul territorio libanese.

Il delicato equilibrio tra sunniti, sciiti e cristiani maroniti rischia di essere compromesso dalla normalizzazione della situazione dei rifugiati (per la maggior parte sunniti): la loro permanenza in Libano potrebbe comportare l’attribuzione di diritti di cittadinanza che, oltre al lavoro e allo spazio, assegnerebbero ai siriani anche un grado di rappresentanza politica che sconvolgerebbe definitivamente il debole ordine istituzionale a Beirut.

Piuttosto il mare

Le enormi pressioni con cui il Libano spinge i siriani a lasciare il Paese (Ansa parla anche di coprifuoco e privazione dei servizi essenziali nei campi profughi) sono destinate a rimanere, se non a peggiorare. Nonostante le durissime condizioni di vita, per i siriani rimanere in Libano è comunque un’opzione migliore del rientro in patria. Se nemmeno rimanere è più un’opzione, tocca partire. E in centinaia infatti salgono sui barchini pericolanti che dirigono la prua verso l’Italia, in folli tentativi di emigrazione che spesso finiscono in tragedia. Insieme ai palestinesi e ai libanesi stessi, sono sempre più numerosi i siriani che partono dalle coste Levantine alla volta dell’Europa. Tra gli intervistati nei campi profughi della valle del Beqa’ infatti c’è chi si è dichiarato pronto a imbarcarsi se necessario: “In Siria non c’è più alcuna speranza, annegherei in mare piuttosto di tornare“.

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