A poche ore dall’invio dell’ultimo pacchetto di aiuti bellici (800 milioni di dollari in munizioni per sistemi Patriot e lanciarazzi multipli), il sostegno americano all’Ucraina ha mostrato delle strane crepe. È successo nell’aula del Congresso, dove il 13 luglio scorso la Camera dei Rappresentanti ha votato la legge sulla spesa militare per l’anno prossimo. Una settantina di parlamentari appartenenti al Partito repubblicano ha presentato un emendamento che avrebbe bloccato lo stanziamento di nuove risorse da mandare a Kiev. “In deroga a qualsiasi disposizione della presente o di qualsiasi altra legge, nessun fondo federale può essere reso disponibile per fornire assistenza alla sicurezza dell’Ucraina”, è il testo, epigrafico, di questa modifica firmata dal deputato della Florida Matt Gaetz.
La provocazione dei ribelli repubblicani
Messa ai voti, la proposta è stata ampiamente bocciata con 358 no provenienti da entrambi gli schieramenti. Gaetz se lo aspettava, come ha riconosciuto durante il dibattito in aula: “Il mio emendamento perderà in modo schiacciante, ma il popolo americano vedrà chi vuole rappresentarlo e chi vuole rappresentare la Crimea”, ha commentato il politico dell’ala radicale dell’Elefantino. C’era dunque la consapevolezza che congelare l’assistenza militare in Europa sarebbe stato impraticabile, ma l’obiettivo non era quello.
La fronda repubblicana, afferente in particolar modo all’intergruppo “Freedom Caucus” che per poco non ha fatto naufragare la nomina di Kevin McCarthy a speaker, ha voluto mandare in primo luogo un messaggio all’amministrazione Biden, concentrata a garantire tutte le forniture necessarie al prezioso alleato impegnato nella guerra contro il debordante orso russo. Ma non solo. C’è una battaglia che si sta svolgendo dietro le quinte all’interno del Gop e che riguarda soprattutto la riformulazione della politica estera del Partito che controlla soltanto uno dei due rami del Congresso e ha perso tutte le elezioni federali dal 2018 in poi e pareggiato le scorse midterm.
Cosa è cambiato nel Partito Repubblicano
Il tema ha perso la forza della triste “War on terror” dei primi anni Duemila, nondimeno è ancora un irrinunciabile elemento identitario. Nei repubblicani è ricomparsa la ciclica oscillazione tra l’atavico isolazionismo, abbracciato per la prima volta dopo la Prima guerra mondiale, e la naturale propensione al coinvolgimento diretto nelle dinamiche internazionali, emerso con la risoluzione Vandenberg che sbloccò l’iter per la creazione della Nato. Una costante che nel tempo non si è mai spenta e che è riesplosa con il conflitto in Ucraina, sapendosi riadattare.
Lo scontro armato in corso in Europa rappresenta un’opportunità anche per i “falchi” usciti con le ossa rotte dall’esperienza neo-con. Tuttavia la fazione pro-Kiev non può contare su una candidatura di peso nelle imminenti primarie, rimanendo pertanto emarginata. L’ex ambasciatrice Nikki Haley e il vicepresidente Mike Pence, quest’ultimo autore di un editoriale uscito sul Wall Street Journal intitolato “Soltanto le armi possono far finire la guerra in Ucraina”, possono ambire a una fetta irrilevante di elettori.
Trump contro DeSantis: il Gop a un bivio
I due “big” che si contenderanno la vittoria sono l’ex presidente Donald Trump e Ron DeSantis: uno il padre del trumpismo, l’altro un suo prodotto ed ex protetto. Trump ha accusato i democratici di aver scatenato il conflitto e ha detto che con lui alla Casa Bianca Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky avrebbero fatto la pace in 24 ore. DeSantis ha mostrato invece un maggiore distacco, riducendo l’aggressione russa a una semplice “disputa territoriale”. Una posizione, la sua, mutuata dallo storico orientamento di The Donald (contrario agli interventi in Iraq e in Afghanistan), forse perché obbligato a rivolgersi ai sostenitori dell’ex presidente per sottrarre quanti più voti possibili.
Tutte le altre voci, come quella di Pence, che ha accusato i due frontrunner di non comprendere quali sono gli interessi nazionali degli Usa, e Haley sono minoritarie e rappresentano una piccola percentuale degli elettori repubblicani. Eppure, in un’intervista rilasciata a Fox News alcuni giorni fa, Trump ha segnato una svolta. Accusato dai suoi rivali di essere colluso con Putin, il leader conservatore si è vantato dei buoni rapporti mantenuti con Zelensky durante la sua presidenza, nonostante il primo impeachment contro di lui fosse partito proprio a causa di un ricatto denunciato sulle armi a Kiev.
Secondo Trump, il capo dello Stato ucraino dovrebbe moderare le sue aspettative rispetto alla liberazione dei territori occupati, ma – e questo è forse il passaggio cruciale dell’intervista – se Putin non dovesse ascoltare le raccomandazioni del tycoon, l’Ucraina “riceverebbe in un solo giorno quello che non ha ricevuto fino ad ora”. Per chiarezza, il totale degli aiuti arrivati in Ucraina dal 24 febbraio 2022 ammonta a 77 miliardi di dollari di cui 46 in assistenza militare (dati del Council on Foreign Relations aggiornati al 10 luglio 2023).
Gli Stati Uniti sono diventati un bancomat, per parafrasare lo speaker della Camera Kevin McCarthy, ma l’Occidente non è Amazon, ha avvertito il ministro della Difesa di Londra Ben Wallace a margine del summit di Vilnius. E mentre crescono l’ansia e la frustrazione per il ritardo nella controffensiva, lentamente si avvicinano le scadenze elettorali del prossimo futuro. Oltre alle presidenziali americane, nel 2024 si rinnoveranno parlamento europeo e vertici Nato, e gli scossoni che per ora sono stati scongiurati in Francia e Grecia possono sempre verificarsi.
Il timore di un ritorno al vicino passato
Il ritorno di Donald Trump nello Studio ovale è il principale scenario che a Washington e a Bruxelles si sta cercando di evitare, ma l’evoluzione della guerra pone ulteriori interrogativi che nemmeno lo sfidante di Joe Biden saprebbe affrontare. Da questo punto di vista la linea scelta dall’attuale inquilino della Casa Bianca è quella più comoda: assecondando gran parte delle richieste del governo di Kiev e spingendo per un successo graduale che dissuada Mosca da altre avventure militari all’estero, il presidente democratico e la sua schiera di consiglieri (Jake Sullivan in primis) ha adottato la via del rigore a discapito di un realismo che forse schiarirebbe meglio le idee a chi è convinto che un compromesso tra le parti sia inarrivabile. L’uscita polemica della Russia dall’accordo sul grano, con conseguente bombardamento del porto di Odessa, lascia poco spazio al negoziato, per esempio.
D’altronde non era facile ricostituire la postura degli Usa dopo il palese imbarazzo e l’indecisione dell’amministrazione Obama, accusata di eccessiva indulgenza nei confronti del Cremlino quando nel 2014 scoppiò la prima crisi in Crimea e Donbass. La strategia di Trump è sempre la stessa: massima pressione per raggiungere il massimo risultato (Iran docet). Ma forse anche il capo del partito di opposizione si è accorto dell’oggettiva complessità e instabilità del sistema internazionale, sconquassato e frantumato di fronte all’allarmante ricaduta nell’incubo nucleare. A differenza di DeSantis, l’ex presidente repubblicano ha deciso di smarcarsi, attirando su di sé l’ira di chi non crede nella capacità degli ucraini di cacciare la potenza occupante servendosi degli strumenti spediti dall’America. Ma la provocazione legislativa dei 70 ribelli contrari all’invio di armi è un segnale di inequivocabile insofferenza che potrebbe avere ripercussioni profonde.
La guerra in Ucraina passa così anche dalla mutazione trumpiana: chi prevarrà tra il vecchio (Trump) e il nuovo (DeSantis) determinerà quale modello dovrà contrastare la visione liberale e internazionalista dei progressisti statunitensi che comandano il Paese e dettano le regole dell’ordine globale. L’ammissione di Trump rivela che una pacifica coesistenza tra queste due anime non è realizzabile. Lo dicono i numeri: al 28 giugno 2023, due terzi dei cittadini americani (l’81% dei democratici e il 57% dei repubblicani) continua a difendere la decisione di rifornire l’esercito di Kiev perché dimostra ad attori ostili come Cina la risolutezza degli Stati Uniti nel proteggere i suoi interessi all’estero. Quindi l’opinione pubblica è compatta. Ma non per questo immune alla volatilità.