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Lo smantellamento della fragile pax americana, l’instaurazione di un’apparente pax sinica, la concretizzazione di un piano di sicurezza globale, presumibilmente da estendere in altre aree di crisi, oltre ad interessanti opportunità economiche da cogliere al volo. Il tutto condito da massicce dosi di soft power.

Nella narrazione della Cina, l’accordo appena stipulato tra Arabia Saudita e Iran, a Pechino e con la decisiva regia degli emissari di Xi Jinping, rappresenta il segnale più evidente di come funzioni la diplomazia cinese. Di come questa sia più apprezzata, almeno dai Paesi in via di sviluppo e del Sud globale (due macro etichette che sostanzialmente arricchiscono il precedente concetto dei BRICS), rispetto a quella occidentale. E di come, soprattutto, il modus operandi del Dragone sarebbe ormai più efficace e concreto per risolvere le contese globali.

In un’ottica più obiettiva, siamo di fronte alla possibile Sliding Door del Medio Oriente, ovvero al suo ingresso in un’età post-americana. I primi germogli dei semi coltivati dalla Cina hanno dato vita alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Riyad e Teheran dopo sette anni di forti tensioni. Entro due mesi, Arabia Saudita e Iran riapriranno le rispettive ambasciate promettendo “rispetto per la sovranità e non interferenza negli affari interni”. Ricordiamo che negli ultimi otto anni sauditi e iraniani sono stati impegnati in una guerra per procura nello Yemen, che si è calmata soltanto di recente, e che si sono trovati su fronti contrapposti in tutto il Medio Oriente, in Libano, Siria e Iraq. 

Anche se la normalizzazione dei rapporti tra iraniani e sauditi potrebbe non significare una cessazione della violenza in tutta la regione, avvertono gli esperti, il congelamento delle ostilità aperte dovrebbe essere accolto con favore. Agli occhi degli Stati Uniti restano tuttavia diversi dubbi, in primis nei mediatori della pacificazione cinesi. Gli stessi che potrebbero presto farsi avanti per proporre qualcosa di simile anche nell’ambito della guerra in Ucraina.



Vuoti da riempire e affari

Una delle regole non scritte della geopolitica è che ogni vuoto diplomatico verrà, presto o tardi, riempito da qualcuno. Possiamo utilizzare questo adagio se volessimo spiegare che cosa è successo alla politica statunitense nel Golfo. Anni di errori, contraddizioni e pasticci hanno creato una vasta prateria che la Cina è stata ben felice di conquistare.

Il fatto che Pechino abbia svolto un ruolo chiave nella fumata bianca tra Arabia Saudita e Iran mostra dove si sta spostando il potere globale, oltre ad un cambio di passo nella politica di Xi in Medio Oriente. Fino ad oggi, infatti, la Repubblica Popolare Cinese è sempre stata cauta nell’assumere un ruolo chiave in quest’area per il rischio di esserne inghiottita.

La virata della leadership cinese è significativa, ma attenzione: non significa che la Cina vorrà ricreare un’architettura securitaria in loco sul modello di quanto fatto in passato dagli Stati Uniti. Al contrario, il gigante asiatico sta apparentemente cercando di creare un ambiente pacifico internazionale in cui poter fare affari. Detto altrimenti, Xi Jinping, in “versione pompiere”, intende spegnere i molteplici incendi scoppiati in giro per il mondo – dal punto di vista dell’immagine, meglio ancora se scoppiati in seguito ad errori occidentali o americani – per creare una comunità di Paesi posti sullo stesso piano e con i quali dialogare ufficialmente da pari a pari.

È il cosiddetto concetto di comunità umana dal futuro condiviso che si ritrova in ogni documento ufficiale diffuso dal governo cinese. Un concetto che dovrebbe risolvere le incongruenze insite nell’attuale ordine globale.

La sfida agli Usa

L’Arabia Saudita, a lungo un partner degli Stati Uniti, sembra essersi scrollata di dosso il suo impegno per un mondo unipolare a trazione statunitense. E questo la dice lunga su come il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, stia conducendo la politica estera nazionale, mentre il regno si avvicina a Cina e Iran, alla ricerca di sicurezza e vantaggi economici, allontanandosi dai tradizionali alleati occidentali. Guardando al futuro, inoltre, Riyad ha fatto una scelta strategica ben precisa, visto che starebbe cercando di entrare a far parte del gruppo dei Brics e di assumere lo status di osservatore presso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.

L’accordo sembra poi essere stato portato avanti durante la visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Pechino il mese scorso. Da quando Raisi è entrato in carica, nell’agosto 2021, ha annunciato che una delle sue priorità sarebbe coincisa con la volontà di ridurre le tensioni con i vicini regionali.

Lo scorso dicembre, però, la Cina aveva rilasciato una dichiarazione congiunta con l’Arabia Saudita e altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) definendo l’Iran un sostenitore delle organizzazioni terroristiche regionali, mettendo addirittura in guardia sulle ambizioni nucleari di Teheran. Quali incentivi la Cina abbia concesso agli iraniani per firmare l’accordo con i sauditi non è chiaro, ma sembra che l’offerta cinese sia stata impossibile da rifiutare.

In tutto ciò – anche per capire meglio gli incentivi cinesi – non bisogna dimenticarsi che la Cina è il principale partner commerciale del Golfo e della maggior parte del Medio Oriente, e che ha quindi un reale interesse nell’allentamento delle tensioni regionali. 

Dimostrare di essere in prima fila nella facilitazione di complessi negoziati diplomatici, insomma, non fa altro che accrescere il prestigio cinese. Pechino sta lanciando un messaggio ben preciso ai governi mediorientali: mentre Washington è e continua ad essere la potenza militare preponderante nel Golfo, i cinesi si candidano a diventare una presenza diplomatica in continua crescita.

La Cina era in una buona posizione economica per impegnarsi in questa spinosa avventura diplomatica, dato che, da sola, rappresenta circa il 30% del commercio internazionale totale dell’Iran ed è, al contempo, il più grande mercato di esportazione di petrolio dell’Arabia Saudita, che a sua volta è il più grande fornitore di petrolio del Dragone.

Petrolio e rotte commerciali

Se agli occhi degli Stati Uniti la presenza cinese in Medio Oriente è ancora irrisoria, è pur vero che l’impronta della Cina nel commercio, e soprattutto nella tecnologia in Asia occidentale e nella regione mediorientale, è cresciuta enormemente. E questo, ha evidenziato Asia Times, sta consentendo a Pechino di trasformare il suo graduale accumulo di soft power in una sorta di “colpo di stato diplomatico” senza precedenti.

Come se non bastasse, il ruggito del Dragone nel Golfo Persico indica un fallimento dei tentativi americani di contenere la leadership globale cinese nelle telecomunicazioni e nella tecnologia dell’intelligenza artificiale (Ai). Già, perché la capacità della Cina di trasformare tecnologicamente le economie regionali è un fattore chiave dei suoi sforzi diplomatici.

Ci sono altri tre aspetti da considerare. Il primo è che per Pechino il Medio Oriente è una sorta di nuova porta d’accesso all’Europa e all’Africa, a maggior ragione dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.

Il secondo punto riguarda gli accordi tra la Cina e gli attori coinvolti nella distensione diplomatica: con Arabia c’è in ballo fusione tra la Belt and Road Initiative cinese e il progetto saudita Vision 2030, mentre l’Iran continua ad essere un hub infrastrutturale fondamentale per il sostentamento della stessa Nuova Via della Seta.

C’è poi il terzo filone che chiama in causa il petrolio: il Dragone ha bisogno di risorse energetiche, ha sete di petrolio, e focolai di tensione in Medio Oriente non agevolano il suo commercio. In generale, la crescente influenza della Cina nella regione è evidente dai dati commerciali, che mostrano come le sue esportazioni verso i Paesi chiave dell’area mediorientale siano quasi raddoppiate negli ultimi tre anni.

A differenza degli Stati Uniti, la Cina può quindi contare su un piano per trasformare le economie del Medio Oriente grazie all’implementazione di infrastrutture digitali, porti, ferrovie, energia solare guidata dall’intelligenza artificiale e mezzi per salvare le economie in crisi. Un esempio? Quando, nel dicembre 2022, Xi Jinping ha visitato l’Arabia Saudita, Reuters ha scritto che sarebbe stato concordato un memorandum tra Riyad e la cinese Huawei Technologies, sul cloud computing e sulla costruzione di complessi ad alta tecnologia nelle città saudite. Huawei ha inoltre partecipato alla costruzione di reti 5G nella maggior parte degli stati del Golfo nonostante le preoccupazioni degli Stati Uniti.

In definitiva, la Cina ha intenzione di costruirsi un’immagine di Paese diplomatico. Una volta “conquistata la fiducia” in Medio Oriente, Pechino potrà far scattare un collegamento con l’Africa, e da qui con l’America Latina: ecco il nuovo Sud del mondo del quale Xi vuole essere leader.

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