All’alba del 2006 gli economisti internazionali coniarono un acronimo per indicare una serie di Paesi che, all’epoca, condividevano una situazione economica in via di sviluppo riscontrabile in una decisa crescita del loro prodotto interno lordo e nell’abbondanza di risorse naturali.

Il rapido tramonto dei Brics

I BRICS, cioè Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, avevano letteralmente ipnotizzato il mondo. La maggior parte delle previsioni era concorde nel ritenere che questo gruppo di nazioni avrebbe conquistato quote sempre più grandi nel commercio mondiale. Il trucco del successo dei BRICS, ai quali si sarebbe poi idealmente aggiunta anche la Turchia, consisteva nel costruire un sistema commerciale globale a colpi di accordi bilaterali, non basati sul dollaro ma su altre monete.

Il sogno di mezza estate durò il tempo di qualche anno. E il principale problema fu legato alla concezione economicistica che sottendeva l’aggregazione artefatta dei BRICS: l’idea che l’economia potesse farsi unico ordinatore e che la connettività monetaria e finanziaria plasmasse una convergenza tra sistemi così diversi tra loro. Dimenticando la grammatica strategica che vede l’economia come derivata di precise scelte politiche e geo-strategiche.

Brasile e Sud Africa, travolti da problemi diversi, furono i primi ad alzare bandiera bianca e a non mantenere le aspettative. La Russia, tra il peso delle sanzioni e gli aspri dissidi con Stati Uniti e Unione europea, è rimasta congelata a metà del guado. La Cina è invece l’unica nazione BRICS che non solo ha rispettato le previsioni, ma è pure andata oltre diventando (quasi) una potenza a tutto tondo. Non a caso, Pechino rappresentava il termine di paragone per le rimanenti nazioni del ben poco coeso gruppo, tanto che tuttora si parla di crescita “cinese” per indicare il processo di espansione rapida di un’economia in via di sviluppo. E l’India? Come vedremo, si è fin qui rivelata l’emblema del “vorrei ma non posso”.

La Cina brucia le tappe

Nei primi anni Duemila era praticamente certo che il futuro sarebbe appartenuto a cinesi e indiani. Nel giro di qualche anno la Cina di Xi Jinping si è rinnovata, ha costruito infrastrutture all’avanguardia, ha lanciato la Belt and Road Initiative e, stando a quanto riferito da Pechino, ha praticamente azzerato la povertà interna. Solo negli ultimi otto anni presi in considerazione dalle statistiche (2013-2020) quasi 100 milioni di persone sono state portate fuori all’indigenza.

Xi Jinping comunicando questi risultati nel febbraio 2021 ha parlato di una “vittoria totale” del modello di capitalismo di Stato cinese, che a partire dal varo delle riforme di Deng Xiaoping a fine Anni Settanta ha prodotto la più grande uscita di massa dalla miseria che la storia ricordi: Dalle riforme economiche del 1978 a oggi, cioè in poco più di quarant’anni, la Cina ha sollevato dalla povertà estrema oltre 850 milioni di persone, 770 dei quali (una popolazione pari alla somma di quella di Ue e Stati Uniti) residenti nelle aree rurali. Il tasso di povertà nazionale è crollando passando dal 66.2% del 1990 allo 0.5% del 2016 e le statistiche, certificate dalla Banca Mondiale, lasciano presagire che la povertà sarà eradicata dal Paese entro il 2030, in conformità con gli obiettivi Onu.

India in affanno

La situazione socio-economica dell’ex Impero di Mezzo è dunque nettamente migliorata. Al contrario, l’India ha dissipato gran parte del proprio potenziale restando inchiodata sul punto di partenza. L’Elefante indiano avrebbe dovuto essere la “nuova Cina”. Ci si aspettava, in sostanza, che Nuova Delhi emulasse l’esempio cinese, diventando una mecca di business e grandi affari. Anzi, visto che il governo indiano era regolato da un sistema democratico, il Paese sarebbe riuscito a fare ancora meglio del rivale cinese, ancora inchiodato – ritenevano a torto vari esperti – sulla stesura di arcaici piani quinquennali e al volere del monolitico Partito Comunista Cinese. A quanto pare, invece, i deficit della Cina si sono rivelati i propulsori di un’innovazione senza precedenti della storia umana. Ma per quale motivo l’India ha fallito, o quanto meno rimandato, l’appuntamento con la storia? C’è chi ne risponde a questa domanda considerando il tutto da un punto di vista culturale. Il confucianesimo cinese, così razionale e pratico, avrebbe contribuito al miracolo di Pechino allo stesso modo in cui l’induismo indiano, al contrario mistico e irrazionale, avrebbe decretato il fallimento di Nuova Delhi.

Altri sottolineano invece il confronto tra la democrazia asiatica indiana, consumata e non sempre efficiente, e il governo del Partito Comunista Cinese, efficace nel raggiungere ogni traguardo messo in cantiere. Giusto per fare un esempio, quando il governo cinese ha intenzione di costruire una nuova linea ferroviaria ad alta velocità, si limita ad acquisire i terreni sui quali edificare l’infrastruttura, spostare e risarcire le persone coinvolte dai lavori, e terminare l’opera in tempi brevissimi. Qualcosa di simile sarebbe impensabile in India, dove i gangli della burocrazia tirano per le maglie la fragile democrazia nazionale. E qui arriviamo a una chiara differenza di fondo tra il Dragone cinese e l’Elefante indiano: mentre il miracolo cinese è stato edificato su infrastrutture, investimenti e produzione, l’India può vantare livelli mediocri, e non sempre accettabili, in questi tre campi.

I problemi profondi dell’economia indiana

C’è poi da sottolineare l’importante questione della concentrazione della ricchezza e delle disuguaglianze che in India hanno prodotto lo sviluppo a concentrarsi in aree precise, in quartieri di grandi città come Mumbai, Hyderabad, Bangalore senza creare una cinghia di trasmissione con il resto del sistema. Eccezion fatta per precisi settori come la farmaceutica e l’elettronica, in cui l’India è divenuta la prima produttrice di prodotti a basso o medio valore aggiunto e semilavorati al mondo, lo sviluppo indiano è ancor oggi un misto tra attività economiche del settore primario a basso tasso di innovazione tecnologica, industria di base di scarsa qualità e pochi hub fondati su servizi di ultima frontiera. L’elevata dispersione del capitale umano, l’elevato tasso di immigrazione di giovani laureati preparati e ben formati nelle materie tecnologiche e la scelta del governo di Narendra Modi di tentare di alimentare la crescita del Paese con l’imposizione di riforme neoliberiste e con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, in un revival degli Anni Ottanta occidentali, hanno fatto il resto.

Anche il settore più sviluppato dell’India, quello dell’alta tecnologia, dietro la patina hi-tech è sostenuto da un esercito di lavoratori invisibili di dimensioni impressionanti: ancor più che in Occidente l’India è colpita dal dilagare della gig economy e dall’economia informale, un fenomeno che Elisabetta Basile, professoressa di economia applicata presso La Sapienza di Roma, ha sviscerato nel saggio accademico Capitalist Development in India’s Informal Economy del 2013, sostenendo che esso coinvolga tra i 400 milioni e il mezzo miliardo di persone.

Poco importa se – così pare – entro il 2050 l’India diventerà il Paese più grande al mondo con una popolazione pari a 1.7 miliardi di persone (+ 300 milioni rispetto a oggi), staccando ampiamente la Cina. Da qui ad allora, infatti, il modello di sviluppo basato sulla demografia potrebbe essere diventato obsoleto. Detto in altre parole, mentre a cavallo tra gli anni 80′ e 90′ il Dragone ha potuto contare su un’immensa forza lavoro per produrre materiali da esportare in Occidente – da qui l’ex appellativo di “Fabbrica del mondo” -, oggi un modus operandi simile rischia di avere lo stesso effetto di un buco nell’acqua, visto che il baricentro economico si sta rapidamente spostando dalla manifattura ai servizi sempre più specializzati. La sfida indiana, dunque, consisterà semmai nel fornire un adeguato standard di vita a quante più persone possibili, cercando al contempo di creare una solida classe media da posizionare al centro del percorso di crescita nazionale.

Strade divergenti

Le scelte dei due Paesi hanno fatto il resto. La Cina ha investito a volontà per migliorare le proprie infrastrutture, e questo ha contribuito ad attirare oltre la Muraglia multinazionali e aziende da ogni parte del mondo. L’India, oltre a un sistema infrastrutturale da modernizzare, deve fare i conti con un gran numero di misure che limitano flussi commerciali e investimenti esteri. Per fare un confronto, all’inizio degli anni ’80 India e Cina hanno attirato rispettivamente lo 0.1% e l’1.7% dei flussi di investimenti esteri diretti (IDE) a livello globale; alla fine degli anni ’90 Nuova Delhi toccava una quota inferiore all’1%, mentre Pechino sfondava il 6.6%.

Il divario si è allargato sempre di più, toccando l’apice nel periodo compreso tra il 2012 e il 2014, quando il Dragone ha calamitato il 9.1% dei flussi di IDE globali – piazzandosi, tra l’altro, al secondo posto dietro gli Stati Uniti -, contro il misero 2.1% indiano (13esimo posto). Fa inoltre impressione pensare che alla fine degli anni ’70 i due Paesi asiatici facevano registrare più o meno lo stesso Pil. E che nel 2019 quello cinese era tre volte più grande di quello indiano, a parità di potere d’acquisto, e addirittura 5-6 volte usando il criterio dei prezzi di mercato.

Sul lato tecnologico, analizzando le spese in ricerca e sviluppo, nel 2018 la Cina ha speso 485.5 miliardi di dollari a fronte degli appena 86.2 miliardi indiani, ovvero il 2.2% e lo 0.8% del prodotto interno lordo; nel 2020 siamo arrivati al 2.4% e allo 0.9%. L’ultimo autogol di Nuova Delhi, se così vogliamo definirlo, coincide con la decisione del premier Narendra Modi di avviare una sorta di campagna per l’autosufficienza nazionale. Dal maggio 2020 in poi, sulla scia di un crescente nazionalismo, l’India ha così provato a smarcarsi dalla sua dipendenza economica nei confronti della Cina. Risultato? Pessimo. Le imprese indiane non sono riuscite a fare a meno dei prodotti cinesi, vista la carenza di valide alternative locali, sia per quanto concerne qualità che prezzi.

Prospettive future

Si può dunque capire perché l’India tema, sostanzialmente, la proiezione geoeconomica del Dragone a mezzo “Nuova via della seta”: il timore di Nuova Delhi è che una Cina in costante proiezione euro-asiatica marginalizzi il gigante del Subcontinente escludendolo dalle direttrici della crescita e dello sviluppo di medio o lungo periodo. In questo contesto, l’India prova a mostrarsi combattiva e a controbilanciare Pechino immaginando accordi infrastrutturali con Giappone, Usa, Ue, a costruire strade alternative: ma l’unica via per la ripresa del Paese passa per la rottura delle contraddizioni interne. Armonizzando i diversi fusi orari storici del Paese in maniera più orientata al progresso futuro.