Le elezioni di maggio in Turchia sono tra gli appuntamenti più importanti del 2023. Il prossimo presidente definirà i rapporti del Paese con gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, e deciderà che ruolo avrà Ankara nella Nato e nella guerra in Ucraina. Dovrà inoltre decidere il futuro delle relazioni con i vicini Israele e Siria, da cui dipenderanno gli equilibri nel Medio Oriente, e gestire le tensioni nel Mediterraneo orientale. Non da ultimo, le elezioni del 14 maggio avranno risvolti sulle politiche migratorie della Turchia, crocevia delle rotte da Est più pericolose e battute. Difficile fare previsioni su quelle che saranno le svolte dell’opposizione dopo un’eventuale vittoria: al momento, a unire il “tavolo dei sei” è principalmente il sentimento anti-Erdoğan.
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La Nato e la guerra in Ucraina
La Turchia si è ritagliata un ruolo di rilievo nella guerra in Ucraina. Proprio a Istanbul si sono firmati nel 2022 i primi accordi tra Mosca e Kiev: l’intesa, mediata dai turchi e dall’Onu, aveva permesso di smuovere oltre 20 milioni di tonnellate di grano bloccati nei porti del Mar Nero dall’inizio della guerra. I rapporti con la Nato da una parte e con la Russia dall’altra sono il tema più spinoso che dovrà affrontare il nuovo presidente. La Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica dal 1952, ma non ha aderito alle sanzioni del G7 e dell’Unione europea contro Mosca. Inoltre, dalla fuga dei documenti del Pentagono, è emerso che la brigata Wagner, impegnata in Ucraina, aveva avvicinato “contatti turchi” a febbraio con l’obiettivo di comprare armi.
A fine marzo l’attuale presidente turco ha dato il via libera all’adesione alla Nato della Finlandia, e dunque all’estensione dell’Alleanza Atlantica a ridosso del confine con la Russia. Ma lo ha fatto dopo mesi di veti e di ultimatum: un equilibrismo che ha indispettito i partner occidentali e attirato feroci critiche da parte dell’opposizione guidata da Kemal Kılıçdaroğlu, erede di un kemalismo che guarda tradizionalmente a ovest. Il leader del Chp ha annunciato che, se sarà eletto, punterà a normalizzare definitivamente i rapporti con la Nato. Mosca permettendo.
I rapporti tra Turchia e Russia
Le relazioni tra Turchia e Russia si reggono su equilibri estremamente delicati. I due Paesi sono entrambi presenti in Libia (il primo in Tripolitania, il secondo nella Cirenaica), e Mosca ha ospitato il 25 aprile l’incontro tra i ministri degli Esteri di Turchia, Siria e Iran per discutere il riavvicinamento tra Damasco e Ankara.
Inoltre, per il governo turco Mosca resta a oggi un partner irrinunciabile dal punto di vista energetico: nel 2022, la Turchia ha importato il 40% del gas dalla Russia, mentre l’import di combustibili fossili è aumentato da 14,3 a 41,8 miliardi di dollari. Il 27 aprile il presidente russo Vladimir Putin ha partecipato in video-collegamento alla consegna del carburante per la centrale nucleare di Akkuyu, realizzata dalla russa Rosatom.
Gli interessi degli Usa e la questione curda
Nel tentativo di blindare il riavvicinamento alla Nato, Kılıçdaroğlu promette di “prendere iniziative” per tornare al programma di acquisto degli aerei F-35, sospeso dagli Usa nel 2019. Secondo alcuni analisti, il leader del Chp potrebbe decidere persino di restituire a Mosca i sistemi di difesa aerea S-400, il cui acquisto fu alla base dello strappo con Washington.
Gli Stati Uniti guardano con interesse al voto, e agli effetti che questo potrebbe avere sui rapporti con la Turchia. Negli ultimi anni, i due Paesi si sono scontrati a più riprese sulla questione dei curdi, sostenuti dagli Usa in Siria e combattuti – all’estero e in patria – da Erdoğan. Una vittoria di Kılıçdaroğlu, appoggiato dal partito filo-curdo Hdp, potrebbe dare nuovo impulso alle relazioni.
L’Unione europea: tra diritti e storiche tensioni
Sullo sfondo resta il tentativo di riavvicinamento con Bruxelles. Kılıçdaroğlu ha promesso che tra i primi atti del suo governo ci sarà l’accordo per la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, e che l’intesa arriverà entro tre mesi dalle elezioni. Più complicato sarà invece riavviare i negoziati di adesione all’Ue, finiti in stallo a causa della svolta anti-democratica intrapresa da Erdoğan negli ultimi anni di potere. Anche sulla questione dei diritti, Kılıçdaroğlu si è detto pronto a intervenire. In una riunione del Chp, tenutasi simbolicamente l’8 marzo, il leader dell’opposizione ha promesso di restaurare la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, da cui Erdoğan si era ritirato nel 2021. “La democrazia arriverà in Turchia e la Convenzione di Istanbul tornerà sicuramente in vigore”, ha dichiarato.
Difficilmente invece saranno risolvibili le storiche tensioni con la Grecia a Cipro. Dopo un momento di ottimismo al vertice Nato del 2018, dove Erdoğan e l’allora primo ministro greco Alexis Tsipras avevano avuto un confronto pacifico, nel 2020 Atene e Ankara hanno sfiorato uno scontro armato per il controllo delle acque – e quindi del gas – intorno all’isola. Anche l’opposizione sembra non voler fare nessun passo indietro. L’alleanza dei 6 partiti ha affermato che, in caso di vittoria, “perseguirà gli obiettivi di protezione dei diritti acquisiti della Repubblica turca di Cipro del Nord”.

La politiche migratorie
E poi c’è la politica interna e la gestione dei rifugiati provenienti in gran parte dalla Siria. In una campagna elettorale focalizzata principalmente sulla crisi economica nazionale, Kılıçdaroğlu ha dichiarato di voler pensare prima alla Turchia e al suo popolo. Il suo progetto a lungo termine è quello di un progressivo rimpatrio dei 3,6 milioni di persone (dati Unhcr) che hanno trovato rifugio nel Paese negli ultimi 10 anni. Sia Erdoğan che Kılıçdaroğlu hanno annunciato un’accelerata nei rimpatri, con il leader dell’opposizione che promette il rientro in Siria di 2 milioni di persone nel giro di due anni. “Turkey first”, ha scritto in un tweet del 30 marzo.
Le future politiche migratorie del paese sono cruciali per gli equilibri internazionali. Negli ultimi anni Erdoğan non ha esitato a usare i rifugiati come armi politiche per far valere i suoi interessi con l’Ue, che dal 2016 manda soldi ad Ankara per fermare gli arrivi ed esternalizzare i confini. Proprio dalla Turchia passano due importanti rotte migratorie: quella balcanica verso la Grecia, sempre più pericolosa a causa di muri e respingimenti, e quella via mare dall’area di Smirne, da dove è partito il barcone naufragato a pochi metri da Cutro.
I rapporti con i vicini: Siria, Arabia Saudita e Israele
L’evoluzione della questione migranti in Turchia è strettamente legata ai rapporti che il prossimo presidente instaurerà con Bashar al-Assad. Erdoğan sta cercando di riavvicinarsi alla Siria, e un miglioramento delle relazioni con Damasco è tra i punti cardine anche del programma di politica estera di Kılıçdaroğlu. Tuttavia, il presidente siriano ha già chiarito che accetterà di incontrare Erdoğan o il suo successore solo quando Ankara sarà pronta a ritirare completamente i propri militari dal Nord della Siria.
L’approccio di Erdoğan nei confronti di Damasco rientra in una strategia più ampia che il presidente turco ha iniziato ad adottare in particolare dopo la pandemia di Covid-19. Il leader dell’Akp ha riavviato il dialogo con Paesi strategici in Occidente e Medio Oriente, per evitare ricadute economiche derivanti da un approccio troppo duro con i vicini. Emblematici sono gli incontri, nel 2022, con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e, soprattutto, con il principe ereditario saudita Mohammad bin-Salman.
I rapporti tra Ankara e Riad erano precipitati dopo l’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuta nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul. L’incontro tra Erdoğan e bin-Salman a giugno dell’anno scorso aveva scatenato la reazione di Kılıçdaroğlu, affidata a un tweet: “L’omicidio nella nostra terra ha il suo prezzo. Il nostro conto con lui non è chiuso. Pagherà per ciò che ha fatto”.
Il nuovo presidente dovrà anche gestire il complicato rapporto con Israele. Negli ultimi anni, Kılıçdaroğlu è stato molto duro: “Israele dovrà essere isolato a livello internazionale se continua la sua politica di massacri e se continua a espandere gli insediamenti illegali sulle terre palestinesi”, diceva già nel 2018. “C’è un prezzo per il martirio dei nostri cittadini in acque internazionali”, aveva rincarato l’anno scorso, riferendosi all’incidente della flottiglia Mavi Marmara del 2010, in cui nove attivisti turchi furono uccisi dalle forze israeliane. Kılıçdaroğlu si è espresso con fermezza anche sul caso dell’arresto in Israele della turista turca dopo l’assalto alla Moschea di al-Aqsa del 4 aprile: “La rilasci immediatamente. Questo influenzerà le nostre relazioni future”.
Erdoğan, da parte sua, cerca da tempo di intestarsi il ruolo di difensore del mondo musulmano, e della causa palestinese, affermando il primato di Gerusalemme su Medina e La Mecca come città sacra dell’Islam. Sulle violenze della polizia israeliana, ha detto: “La Turchia non può rimanere in silenzio. Calpestare la santità di al-Aqsa è la nostra linea rossa”. Nonostante questa e altre dure prese di posizione nel passato, Erdoğan ha aperto alla normalizzazione dei rapporti con Israele e, nel 2022, i due Paesi hanno riattivato le ambasciate. Ma Ankara avverte: “Questo non significa che smetteremo di difendere i palestinesi”.