La nazione araba più vicina alle nostre coste sarà chiamata fra poche settimane ad eleggere un nuovo presidente della Repubblica e un nuovo parlamento. Le definizioni per questo Paese si sprecano: culla della primavera araba, esempio della democrazia nel mondo arabo, perla rara del Mediterraneo. Parliamo della Tunisia, uno Stato senza guida dopo la morte del presidente Beji Caid Essebsi, considerato il “padre” della seconda Repubblica democratica tunisina. Le incognite sono tante e la scomparsa del politico tunisino di origini sarde ha lasciato un vuoto non indifferente. Basta aprire Google Maps per capire che la faccenda ci riguarda da vicino: Tunisi si trova sulla stessa longitudine di Pozzallo, il porto siciliano dove sbarcano i migranti, mentre Biserta, la città più a nord dell’intero continente africano, è alla stessa altezza di Agrigento.
Daniel Brumberg dell’Arab Centre di Washington DC sottolinea sull’agenzia Bloomberg che la scomparsa di Essebsi ha lasciato “un grande vuoto politico” alla luce non solo di una preoccupante crisi economica, ma anche e soprattutto delle “difficoltà che colpiscono dritte al cuore le emergenti istituzioni democratiche tunisine”. Una crisi “politica e costituzionale” che ha molte cause, parzialmente radicate nel mancato completamento di istituzioni chiave come la Suprema Corte Costituzionale e nel conflitto fra i poteri dello Stato, a cui il defunto presidente – scrive Brumberg – “potrebbe aver contribuito” con una serie di discutibili scelte nel suo ultimo anno di vita, inclusa l’ultima decisione di non ratificare i recenti e controversi emendamenti elettorali.
Chiunque vincerà corsa per il Palazzo di Cartagine, sede dell’amministrazione presidenziale, giocherà un ruolo di primo piano anche in chiave delle consultazioni parlamentari. Il calendario elettorale prevedeva che si votasse prima per l’Assemblea dei rappresentanti del popolo e solo dopo per il presidente. La morte di Essebsi ha ribaltato le carte in tavola e adesso ogni partito punta vincere le elezioni presidenziali o a formare una stretta alleanza con il prossimo inquilino di Cartagine, per poi pensare all’Assemblea dei rappresentanti del popolo e alla formazione del governo. Ma i cittadini tunisini sono delusi da una rivoluzione che doveva cambiare tutto e ha cambiato poco o niente. Le consultazioni previste fra poche settimane sono più incerte che mai e i partiti tradizionali potrebbero capitolare sotto i colpi della scarsa affluenza alle urne e dell’ascesa delle formazioni populiste.
Il compromesso politico che ha salvato il Paese dal baratro del conflitto civile nel 2015 non è riuscito a imprimere una direzione politica chiara e incisiva. Il governo di unità nazionale, che comprende sia gli islamisti di Ennahda che i laici di Nidaa Tounes, ha rimandato l’approvazione di riforme economiche radicali per evitare lo scontro con la comunità imprenditoriale e con l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt), potente sindacato in grado di paralizzare l’economia del Paese con scioperi e proteste. Le divergenze tra islamisti e laici sui dossier più spinosi legati allo stato di diritto, come la legge sulla parità di genere nell’eredità, hanno portato a uno scontro “senza vincitori né vinti”, sottolinea ancora Brumberg. Questa politica conservativa ha finito per erodere a poco a poco la credibilità dell’intero sistema politico. L’uscita di scena di un “peso massimo” come Essebsi, considerato il garante dell’interesse nazionale, ha inferto un ulteriore colpo alle processo di transizione verso la democrazia.
Il mix di sfiducia nella politica, disillusione per le promesse non mantenute, alta disoccupazione soprattutto tra i giovani e nelle aree periferiche ha aperto la strada a un neo-populismo in salsa tunisina che segue ormai un trend di portata mondiale. All’avanguardia di questo movimento c’è Nabil Karoui, 56 anni, un magnate dei media e milionario la cui emittente televisiva, Nessma, vanta milioni di telespettatori. Distribuendo aiuti e medicine sotto l’egida di una fondazione privata intitolata al defunto figlio Khalil, morto in un incidente stradale, Karoui è riuscito a guadagnare consensi nelle comunità rurali della Tunisia. L’ampia copertura mediatica e la sagace campagna di marketing politico hanno portato Karoui e il suo partito Qalb Tounes in testa nei sondaggi. Secondo l’istituto Sigma Conseil, la formazione politica populista raccoglierebbe il 29,8 per cento dei consensi alle elezioni legislative del prossimo 6 ottobre, quasi il doppio rispetto agli islamisti di Ennahda, al secondo posto con il 16,8 per cento delle preferenze.
La discesa in campo di Karoui ha profondamente scosso la politica tunisina. I leader di Ennahda faticano a raccogliere il sostegno nei collegi elettorali rurali, tradizionale bacino di voti degli islamisti. Secondo Brumberg, se il tycoon tunisino dovesse vincere le elezioni presidenziali e il suo partito dovesse ottenere la maggioranza relativa in parlamento, la nuova ondata populista potrebbe essere in grado di realizzare ciò che nessun altro ha fatto finora: creare una maggioranza “fattiva” nell’Assemblea dei rappresentanti del popolo. Sia Ennahda che Nidaa Tounes temono di essere estromessi dalle leve del potere. Il background imprenditoriale di Karoui e l’orientamento secolare di Nessma Tv “sembrano escludere un’alleanza con gli islamisti, ma è un fatto che l’ascesa di Karoui ha portato un’enorme incertezza nello scenario politico tunisino”, aggiunge il professore statunitense.
È in questo clima che Ennahda ha deciso, per la prima volta nella sua storia, di presentare un proprio candidato alle elezioni presidenziali. Nel 2014, infatti, la formazione islamica aveva preferito non correre per il Palazzo di Cartagine. La situazione ora è mutata e il partito affiliato alla Fratellanza musulmana ha scelto di candidare il co-fondantore Abdelfatá Muru, 71 anni: “È uno dei pochi membri del partito in grado di soddisfare sia i membri di Ennahda che le élite non islamiste. È della capitale Tunisi, ha frequentato le stesse scuole d’élite della maggioranza dei ministri di Bourguiba (il padre dell’indipendenza tunisina)”, afferma il ricercatore Mohamed Dhia Hammami al quotidiano spagnolo El Pais. Secondo diversi analisti, il candidato di Ennahda è chiaramente favorito per il secondo turno delle presidenziali. Ma Dhia Hammami non è d’accordo: “Ennahda ha perso una parte importante della sua base negli ultimi anni a causa del fallimento delle politiche economiche approvate dal Parlamento. Inoltre, i suoi elettori non sono un gregge di pecore, come credono in molti”.
Sono circa un centinaio le candidature depositate per le elezioni presidenziali in programma in Tunisia il prossimo 15 settembre. Solo un numero compreso tra il 20 e il 25 per cento del totale rispetta i requisiti. Secondo quanto riporta Agenzia Nova, il numero dei candidati ammessi al voto sarà molto più basso delle domande presentate. Tra le ultime personalità politiche ad aver inoltrato la propria candidatura figurano l’attuale capo del governo Youssef Chahed, sostenuto dal partito di recente formazione Tahya Tounes, l’ex presidente Mohsen Marzouk del partito progressista Machrou Tounes, l’indipendente Kaies Said, il discusso uomo d’affari Slim Riahi e il ministro della Difesa, Abdelkarim Zbidi. Proprio figura di Zbidi, candidato dal partito Nidaa Tounes, è emersa con forza negli ultimi mesi. Secondo l’analista Zied Krishan, Zbidi rappresenta “il piano B dell’establishment”, escogitato all’ultimo minuto in assenza di un solido aspirante che garantisca la continuità politica. Medico di professione, 69 anni, ex ministro della Salute durante il regime di Ben Ali, Zbidi potrebbe far leva sulla politica di sicurezza e antiterrorismo, unica area in cui il governo riceve ancora un discreto gradimento.
L’assenza di un governo forte e in grado di preservare la sicurezza nazionale in Tunisia potrebbe innescare una serie di reazioni a catena nella regione. I gruppi terroristici di matrice islamica attivi in Algeria, responsabili di diversi attacchi lungo la frontiera, potrebbero essere incoraggiati a colpire le zone di confine o la capitale Tunisi. Non solo: i tentativi delle forze jihadiste algerine di sfruttare l’instabilità in Tunisia potrebbe rafforzare la repressione, da parte dell’Esercito popolare nazionale algerino, delle manifestazioni democratiche in corso ad Algeri da oltre sei mesi. Venerdì 16 agosto andrà in scena il ventiseiesimo venerdì consecutivo di proteste nella capitale algerina dallo scorso 22 febbraio. Significa che da sei mesi e mezzo ogni venerdì e anche martedì, quando a scendere in piazza sono gli studenti, l’Algeria praticamente si blocca. Per quanto tempo potrà andare avanti questa “rivoluzione del sorriso” prima che i militari perdano la pazienza? La lotta al terrorismo potrebbe essere – e in parte già lo è – un pretesto per mettere la parola fine all’esperienza “rivoluzionaria” algerina.
La guerra civile in Libia, foraggiata dai paesi arabi del Golfo, ha già portato a un duro scontro tra i leader politici tunisini, con reciproche accuse di aver ricevuto fondi ora dal Qatar, ora dall’Arabia Saudita, ora dagli Emirati Arabi Uniti. Senza contare che il conflitto civile in Libia sta già avendo pesantissime ripercussioni sulla Tunisia. L’offensiva militare del generale Khalifa Haftar, il generale con passaporto Usa sostenuto dalle petromonarchie del Golfo e dall’Egitto per far fuori i rivali della Fratellanza musulmana, ha prodotto almeno 100 mila sfollati. La stragrande maggioranza vive in Libia in alloggi privati da parenti o amici, altri sono ospitati nei centri di accoglienza temporanei, ma non basta. Le Nazioni Unite stanno da tempo facendo pressioni sul governo tunisino perché consenta l’apertura di un campo profughi al confine con la Libia. Ma è un fatto che la presenza libica in Tunisia – prima solo stagionale – sia ormai ben radicata e spesso mal sopportata nelle maggior parte delle città.
Una Tunisia nel caos potrebbe avere effetti devastanti anche nella sponda nord del Mediterraneo, vale a dire in Italia. Nel 2011, l’anno della rivoluzione dei gelsomini, c’è stato un picco di oltre 60 mila arrivi sulle nostre coste, per quasi la metà provenienti dalla Tunisia. Un vuoto istituzionale potrebbe favorire l’instabilità e innescare una nuova bomba migratoria che si andrebbe ad aggiungere ai flussi in entrata dalla Libia: uno scenario da incubo per qualunque governo italiano. Al contrario, un governo stabile in Tunisia potrebbe avere ripercussioni positive nell’intera regione in generale e in Italia in particolare.