I politologi e gli accademici specializzati nell’analisi delle relazioni tra Occidente e Russia sono dilaniati da un eterno dilemma: la coesistenza pacifica tra i due blocchi civilizzazionali è realmente possibile o è soltanto un miraggio destinato a non materializzarsi mai?
La realpolitik suggerisce che anche i più acerrimi rivali, ad un certo punto, possano mettere da parte le ostilità in presenza di interessi convergenti e fini superiori da perseguire – questo è accaduto tra Francia e Germania a partire dal secondo dopoguerra ed è quello che stanno facendo Russia e Cina dal post-Euromaidan –, ma la storia prova anche l’esistenza di un fenomeno diametralmente opposto: le guerre egemoniche eterne.
A volte, infatti, l’animosità e la fobia tra le parti sono talmente radicate da impedire il prevalere di buonsenso e pragmatismo, ergo rendono impossibile il raggiungimento di normalizzazioni durature e persino lo stabilimento di matrimoni di convenienza temporanei. Sono i casi, ad esempio, delle relazioni tra le città-stato dell’Antica Grecia e, risalendo all’attualità, di quelli che sulle nostre colonne abbiamo ribattezzato i “contenimenti infiniti“, cioè degli antagonismi connotati da una perennità coriacea e inalterabile.
Quello fra Occidente e Russia, historia homines docet, è precisamente questo: un confronto egemonico eterno. Non si tratta, quindi, di una “guerra fredda 2.0”, e neanche di un “neo-contenimento”, ma del risveglio di una rivalità diluviana entrata in dormiveglia con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e riemersa con forza durante l’era Obama. Le recenti dichiarazioni di Joe Biden hanno riportato la memoria dei più anziani ai tempi reaganiani in cui Mosca veniva considerata la capitale dell’impero del male, ma non dovrebbero né sorprendere né suscitare scalpore: questo è il (naturale) corso della storia complessa che lega Stati Uniti e Russia dai tempi di Andrew Jackson.
Biden non dice nulla di nuovo
Dalla giornata del 17 marzo non si parla d’altro: il neo-presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, rispondendo a una domanda piuttosto provocatoria di un giornalista durante un’intervista per l’ABC, ha dichiarato di credere che il suo omologo sia un assassino e che gli farà pagare un prezzo per aver tentato – secondo lo US Office of the Director of National Intelligence – di condizionare il risultato delle ultime elezioni presidenziali.
Le dichiarazioni hanno suscitato una naturale e tempestiva reazione da parte del Cremlino, che ha richiamato il proprio ambasciatore in loco per consultazioni, avanzato una richiesta di scuse ufficiali e approfittato intelligentemente dell’inatteso assist per raccogliere il popolo attorno alle istituzioni veicolando la convinzione che non si tratti di un attacco a Vladimir Putin, ma all’intera nazione. Lo stesso capo del Cremlino ha risposto punzecchiando la Casa Bianca dicendo che in fondo “La malizia sta negli occhi di chi guarda”. Parlando a un incontro online con rappresentanti della Crimea, Putin ha poi aggiunto: “Quando valutiamo altre persone, o quando valutiamo anche altri Stati, altri popoli, ci sembra sempre di guardarci allo specchio, di vedere le nostre stesse qualità. Perché spostiamo sempre su un’altra persona quella che è la nostra sostanza”.
Biden, tuttavia, dipingendo il capo del Cremlino come un avversario biblico dalle fattezze demoniache, non ha compiuto nulla di innovativo né di sconcertante: ha reiterato, molto semplicemente, un pensiero espresso più volte nell’ultimo ventennio. Negli anni, invero, il longevo padrino del Partito democratico e dell’internazionalismo liberale ha definito Putin una persona priva di anima, un dittatore e un bullo con un record di aggressioni e minacce alle nazioni confinanti e alla Comunità euroatlantica.
Da dove arriva il pensiero di Biden
Il livore covato da Biden nei confronti di Putin, e della Russia quale attore storico, è una delle molteplici manifestazioni del sistema di pensiero, idee e valori nel quale è stato allevato e si è formato negli anni della scalata ai vertici dei dem. Un excursus del suo percorso è, perciò, tanto utile quanto tassativo per capire meglio il contesto.
Biden ha dedicato alle cause del Partito democratico la sua intera esistenza sin dal 1973, anno in cui ha giurato ufficialmente al Senato; un fatto che lo rende uno dei padrini di questa parte del mondo politico statunitense. Ha fatto carriera all’interno della Commissione per le relazioni estere del Senato e ha svolto un ruolo-chiave nella formulazione della politica estera della Casa Bianca sin dal dopo-guerra fredda.
Appartenente alla scuola dell’internazionalismo liberale, l’ex vice di Barack Obama è noto per aver influenzato in maniera determinante la posizione di Bill Clinton all’epoca delle guerre iugoslave, sancendo la fine del dialogo con Belgrado in favore dell’adozione di una linea filo-bosgnacca e filo-albanese, e per aver supportato la guerra al terrore di George W. Bush, in particolare il rovesciamento di Saddam Hussein.
Coerentemente con il proprio credo politico, frutto dell’evoluzione del pensiero di Thomas Jefferson sugli Stati Uniti quale “impero della libertà” (Empire of Liberty), Biden ha anche sostenuto l’allargamento nello spazio postcomunista dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione europea in funzione di contenimento antirusso e, a latere, di democratizzazione. La scuola di pensiero alla quale fa riferimento Biden poggia su tre perni reciprocamente interrelati:
- Gli Stati Uniti hanno il diritto-dovere simil-divino di esportare il loro modello di civiltà in un mondo diviso manicheamente in potenze del bene e potenze del male; sono la “nazione indispensabile” destinata a guidare le prime nella lotta eterna contro le seconde.
- L’ordine internazionale sarebbe avvantaggiato dalla perpetuazione della Pax americana poiché, in ragione del punto sopra, verrebbe a costituirsi un’“egemonia benevola”.
- L’imprescindibilità del multilateralismo. V’è la convinzione che Washington possa perseguire i propri scopi in maniera migliore attraverso l’istituzione di organizzazioni internazionali adibite al mantenimento della pace e alla diffusione dei valori liberali. L’intero sistema di Bretton Woods e la rete che fa capo alle Nazioni Unite sono il riflesso di questo punto-chiave dell’internazionalismo liberale.
Un presidente prevedibile
Nei mesi scorsi avevamo scritto che “Biden è, alla luce del suo passato, della sua appartenenza partitica e del suo credo, in un certo senso prevedibile”. Prevedibile significa che è possessore di un curriculum uniforme e magniloquente che, se analizzato con la dovuta acribia, può essere impiegato per formulare dei pronostici più o meno accurati su quelle che potrebbero essere le sue azioni.
Perché Biden, oltre ad essere stato uno dei fautori della svolta antiserba dell’amministrazione Clinton, è un convinto assertore dell’inesistenza delle “sfere di influenza” e dell’imperativo di salvaguardare la dominanza del blocco-civiltà occidentale negli affari internazionali, e negli anni dell’era Obama è stato il potere dietro il trono che ha messo la firma sul tentato cambio di regime in Siria, su Euromaidan (e sul successivo regime sanzionatorio) e sull’avvio della guerra dei gasdotti con l’annullamento del South Stream.
Ne consegue, alla luce dei punti di cui sopra, che da qui al 2024 si assisterà ad un aumento notevole del livello di scontro tra Stati Uniti (affiancati dall’Ue) e Russia, intervallato da sporadici momenti di ristoro funzionali a permettere il dialogo in materia di armamenti, cambiamento climatico e altri fascicoli sui quali i blocchi potrebbero presentare visioni condivise.
L’eterno ritorno della storia
Come dicevano gli antichi “Nihil sub sole novum”, perché Biden, per il Cremlino, non è nient’altro che un déjà-vu, così come le sue esternazioni non sono che un déjà ecouté. Persino i discorsi sulla questione delle presunte interferenze elettorali e su Donald Trump quale “agente del Cremlino” non sono che una riedizione contemporanea di eventi già accaduti in passato e vissuti dagli avi dei due presidenti.
Perché i più non ne saranno a conoscenza, ma nel remoto 1828, anno delle undicesime presidenziali dell’allora giovanissima democrazia americana, la prestazione elettorale e l’immagine del presidente uscente John Quincy Adams furono danneggiate irreparabilmente da accuse diffamanti (e infondate), provenienti dai Democratici e rilanciate dalla grande stampa, inerenti la sua presunta collusione con l’impero russo. Adams, ribattezzato “il magnaccia dello zar” (ricorda nulla?), avrebbe perduto le elezioni in favore del rivale Andrew Jackson, uomo di punta del Partito democratico.
A sette anni di distanza da quel tesissimo e quanto mai attuale appuntamento elettorale – impregnato di una “paura rossa” antelitteram e costellato da disordini nelle strade – il pensatore Alexis de Tocqueville avrebbe dato alle stampe un’opera senza tempo, “La democrazia in America“, ivi preconizzando l’ineluttabilità di un futuro scontro tra Russia e Stati Uniti; due stati-civiltà, secondo lui, condannati dal destino a rivaleggiare eternamente a causa delle loro dimensioni geografiche, delle loro ambizioni globali e, soprattutto, delle loro identità intrinsecamente antipodiche.
La storia ha dato ragione a Tocqueville, come dimostrano la guerra fredda, il contenimento infinito e la visione di Biden. La paura rossa continua ad essere un sentimento sul quale capitalizzare per spostare voti, mobilitare gli alleati e legittimare politiche espansionistiche e aggressive, nel 2020 come nel 1828, perciò per i conoscitori della storia non vi è nulla di sorprendente né di innovativo negli accadimenti che stanno avendo luogo negli Stati Uniti e nelle dichiarazioni del loro nuovo presidente: è un semplice déjà-vu.