Se esiste un principio sacrosanto della Costituzione americana è quello di permettere tutto ciò che non è stato esplicitamente vietato. Tutto ciò, in un sistema di common law, può essere una benedizione ma anche l’origine di ogni garbuglio giuridico. Non fa eccezione l’epopea giudiziaria di Donald Trump che, tuttavia, non è detto che segni il De profundis sulla campagna elettorale del tycoon per il 2024. La Costituzione americana, infatti, nulla dice circa la fedina penale dei candidati alla presidenza. Ergo, sia la condanna che l’arresto non impedirebbero a Trump di proseguire la sua seconda corsa per la Casa Bianca.

Cosa dice (e non dice) la Costituzione americana

Donald Trump è diventato il primo ex presidente ad essere accusato di un crimine dopo aver lasciato l’incarico, un’accusa storica che giunge nel bel mezzo di una candidatura per le elezioni presidenziali del 2024. I Padri costituenti affidarono all’articolo II della Costituzione i requisiti e le cause di esclusione dalla corsa alle presidenziali. Il futuro Presidente degli Stati Uniti d’America deve innanzitutto possedere la cittadinanza statunitense sin dal momento della nascita; avere almeno 35 anni di età; avere avuto la residenza sul suolo statunitense per un periodo di almeno 14 anni. Più complesso è individuare le cause di esclusione.

A questi tre requisiti, la Costituzione e alcuni emendamenti specificano alcune cause d’ineleggibilità. Innanzitutto il XXII (ratificato il 21 marzo 1947), che stabilisce il divieto di nominare un ex-presidente che ha già tenuto la carica per due mandati; inoltre nessun vicepresidente che abbia rivestito la carica presidenziale per più di due anni, essendo automaticamente subentrato, per qualsiasi motivo, a un altro presidente eletto, potrà essere eletto presidente per più di una volta. Un’altra causa di ineleggibilità (prevista dall’articolo I) riguarda il caso di un ex-presidente condannato con la particolare procedura dell’impeachment al quale il Senato ha comminato la sanzione accessoria del divieto di rivestire in futuro cariche pubbliche federali, fra cui quella di Presidente. E questo non è il caso di Trump.

Infine, il XIV emendamento (approvato il 9 luglio 1868) che recita:

Nessuno potrà essere Senatore o Rappresentante nel Congresso, o elettore per il Presidente e il Vice-Presidente o potrà tenere qualsiasi ufficio, civile o militare, presso gli Stati Uniti o presso qualsiasi Stato, se, avendo previamente prestato giuramento come membro del Congresso o come funzionario degli Stati Uniti o come membro del Legislativo di uno Stato o come funzionario amministrativo o giudiziario in uno Stato di difendere la Costituzione degli Stati Uniti, abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione contro di essi o abbia dato aiuto o sostegno ai loro nemici. Ma il Congresso può, col voto dei due terzi di ciascuna Camera, rimuovere questa causa di interdizione

In quest’ultimo caso, però, la causa di ineleggibilità viene meno qualora i due terzi sia del Senato sia della Camera dei Rappresentanti si siano espressi a favore della sua eleggibilità. Quel “ribellato contro gli Stati Uniti” apre una casistica che può riguardare esclusivamente le indagini per l’assalto a Capitol Hill ma non di certo il caso che ha generato l’indictment di queste ore.

Monumento con inciso l’incipit della costituzione Usa. Foto: Housefinch1787/WikiCommons.

La giurisprudenza americana nel caos

La Costituzione americana non richiede che il Presidente sia esente da incriminazione, condanna o carcere. Ne consegue che una persona sotto accusa o in prigione può candidarsi e persino servire come presidente. Lo storico atto d’accusa dell’ex presidente ha spinto le elezioni presidenziali del 2024 in un territorio inesplorato, sollevando la straordinaria prospettiva che il principale contendente per la nomination repubblicana cerchi la Casa Bianca affrontando anche un processo. A questo punto, la giurisprudenza americana sta cercando, in via comparativa, di ricavare una qualche predizione analizzando l’ipotesi in cui Trump fosse già presidente o lo diventasse (da condannato). Non sembra esserci dubbio che l’accusa, la condanna o entrambe – per non parlare di una pena detentiva – comprometterebbero in modo significativo la capacità di un presidente di “funzionare”. E la Costituzione non fornisce una risposta facile al problema posto da un capo di Stato così compromesso.

Tutti gli imputati sono presunti innocenti fino a prova contraria. Ma in caso di condanna, l’incarcerazione in una prigione statale o federale comporterebbe di certo restrizioni alla libertà che comprometterebbero in modo significativo la capacità di governo. Questo punto è stato chiarito dalla giurisprudenza americana in un promemoria del 2000 scritto dal Dipartimento di Giustizia. Questo rifletteva su un promemoria dell’Office of Legal Counsel del 1973 prodotto durante il Watergate intitolato “Disponibilità del presidente, del vicepresidente e di altri funzionari civili al procedimento penale federale durante il mandato“. La nota nasceva dal fatto che nel 1973 il presidente Richard Nixon era indagato per il suo ruolo nell’irruzione del Watergate mentre il vicepresidente Spiro Agnew perseguito dal gran giurì per evasione fiscale. Questi due promemoria si chiedevano se un presidente in carica potesse, ai sensi della Costituzione, essere incriminato mentre era in carica. La risposta fu no.

Trattare un candidato come fosse già presidente: un’ipotesi

Ma che dire di un presidente incriminato, condannato o entrambi, prima di entrare in carica, come potrebbe essere il caso di Trump? Entrambi i promemoria del 1973 e del 2000 delineavano le conseguenze di un’accusa osservando che un procedimento penale contro un presidente in carica potrebbe comportare “un’interferenza fisica con l’esercizio delle sue funzioni ufficiali da parte del presidente che equivarrebbe a un’incapacità”. Inoltre, i presidenti hanno bisogno di accedere a informazioni riservate: la reclusione comprometterebbe ovviamente anche la capacità di un presidente di accedere a tali informazioni, che spesso devono essere archiviate e visualizzate in una stanza sicura e schermata, cosa che un carcere non è.

Un’altra strada ipotetica è quella legata al XXV Emendamento che si occupa di dichiarare un presidente “incapace di adempiere ai poteri e ai doveri del suo ufficio”. Le due note del Dipartimento di Giustizia notano, tuttavia, che gli autori dell’Emendamento non hanno mai considerato o menzionato l’incarcerazione come base per l’impossibilità di adempiere ai poteri e ai doveri dell’ufficio. Stesso dubbio circa l’eventuale condanna e incarcerazione di un candidato.

Il vero impedimento che potrebbe giungere nei confronti di Trump, a questo punto, è più etico e di buon gusto che legale. A fermarlo potrebbe essere il Gop stesso, intimorito dall’onda lunga dei guai giudiziari del compagno di partito. Tuttavia, alcuni dei suoi rivali per la nomination repubblicana, incluso Ron DeSantis, sono stranamente già balzati in sua difesa. A costringerlo alla resa potrebbero essere i suoi stessi consiglieri, che hanno anche riconosciuto le insidie ​​di una campagna che non ha elaborato la logistica per organizzare contemporaneamente una corsa presidenziale e affrontare un processo penale. La squadra elettorale è infatti separata dal team legale di Trump, e i due non agiscono sempre di concerto.


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