Agli occhi della Cina, la riunificazione con Taiwan è molto più di una semplice questione geopolitica. Senza dubbio, data la sua posizione geografica, Taipei rappresenta un hub economico che ha pochi eguali nel mondo. Trovandosi a metà strada tra il Mar Cinese Meridionale e quello Orientale, l’isola veglia sulle ricche vie marittime del commercio globale, le stesse che si snodano attraverso lo Stretto di Malacca.
Non uno stretto qualsiasi, ma un choke-point critico che i principali attori globali sono costretti ad attraversare per raggiungere i loro obiettivi: mettere le mani su risorse strategiche – in primis il petrolio – e, al tempo stesso, su enormi quantità di denari. Stiamo parlando di un corridoio strettissimo, lo Stretto di Malacca appunto, una lingua di mare lunga circa 800 chilometri che, in certi tratti, arriva ad essere larga appena una manciata di chilometri. Ma che unisce, di fatto, l’Oceano Pacifico all’Oceano Indiano, e dunque i commerci tra i Paesi dell’Estremo Oriente e i Paesi del Golfo Persico, e da qui a Europa e Africa.
Basta un dato per rendersi conto del ruolo giocato dallo Stretto di Malacca nello scacchiere internazionale: da qui transita il 40% del commercio mondiale, nonché merci – un quarto delle quali americane – per un valore totale annuale di quasi 5,3 trilioni di dollari. Nonostante Taiwan disti oltre 3mila chilometri dal collo di bottiglia dello Stretto di Malacca, le ricche navi cariche di petrolio (e non solo) che transitano da e per Corea del Sud, Giappone e Cina, lambiscono le coste di Taipei.
Unendo l’aspetto economico al fatto che l’isola sia protetta formalmente dall’ombrello militare americano, si capisce perché l’eventuale riannessione cinese della “provincia ribelle” equivalga a una sorta di scacco matto geopolitico di Pechino a discapito degli Stati Uniti che, a quel punto, perderebbero gran parte della loro influenza nella regione indo-pacifica. Ma per capire perché la Cina ha davvero intenzione di “riprendersi” Taiwan, bisogna citare, nel dettaglio, quattro fattori.
Fattore storico
Inutile nascondersi dietro un dito. Taiwan è l’ultimo tassello che manca alla Cina per completare la sua riunificazione, dopo aver recuperato Macao e Hong Kong dalle “grinfie” straniere. Dalla fondazione della Repubblica Popolare, nel 1949, nessuno è mai riuscito a riprendere la “provincia ribelle”, diventata roccaforte dei nazionalisti al termine della guerra civile cinese. Fallì Mao Zedong, che nel 1958 tentò il colpaccio bombardando le isole taiwanesi, rischiando di provocare la reazione nucleare da parte degli Stati Uniti, mentre i suoi eredi – da Deng Xiaoping a Hu Jintao – si sono limitati a lanciare dichiarazioni più o meno al vetriolo, senza tirare troppo la corda.
Adesso che i rapporti di forza tra Cina e Stati Uniti si sono quasi capovolti, Xi Jinping non sembra più essere intenzionato ad aspettare il momento giusto in un sostanziale equilibrio perenne. Xi ha deciso che questo è il momento giusto per cercare di recuperare il territorio perduto, così da offrire al suo popolo il Grande Sogno cinese a caratteri cubitali, con tanto di riannessione di Taiwan. Detto in altre parole, Pechino ha intenzione di cancellare l’ultima ferita del suo passato e guardare a un futuro di successo. Ancor più di quello odierno.
Ma ci sono altri tre punti da considerare se parliamo di fattore storico. Il primo riguarda la conformazione del vecchio Impero cinese, un impero delocalizzato o decentralizzato “han-centrico“. “L’Impero cinese ha sempre avuto il dominio diretto sulle zone popolate dagli han (l’etnia dominante in Cina ndr), e ha sempre avuto un dominio indiretto nelle altre aree. Taiwan, Hong Kong e Macao, abitati per lo più da han, non sono mai stati negoziabili per il Partito Comunista Cinese (Pcc), e dunque possono essere definiti territori inalienabili. E a Taiwan c’è chi è d’accordo con questa visione”, ha spiegato a Inside Over Lorenzo Maggiorelli, professore associato di Relazioni Internazionali presso la Jorge Tadeo Lozano University di Bogotà, in Colombia.
Stiamo parlando del Kuomintang, che condivide con il Pcc sia il tema della riunificazione che la politica di una sola Cina. “Lo stesso Kuomintang non può tuttavia rinunciare a concetti liberali, quali la proprietà privata, né sostiene il comunismo. Da questo punto di vista nessuna delle due parti ha fretta: il Pcc fa piani a lungo termine, mentre il Kuomintang, in questo periodo, rischierebbe di sottostare ai comunisti”, ha aggiunto Maggiorelli, che si è quindi soffermato su un terzo aspetto socio-culturale.
“In Cina stiamo assistendo da qualche anno a un fenomeno interessante. Xi ha recuperato il confucianesimo e le religioni tradizionali cinesi come proiezione del soft power nazionale (e non solo). Molti di coloro che hanno sposato tali pratiche, sono fuggiti a Taiwan in seguito all’ascesa di Mao. Adesso queste religioni, tra cui buddismo e taoismo, hanno il loro nucleo forte a Taiwan, nel frattempo diventata la nazione cardine delle suddette pratiche. L’interesse del buddismo cinese, non a caso, è “tornare” in tutta la Cina”, ha concluso lo stesso Maggiorelli.
Fattore strategico e militare
L’Economist lo ha definito “The most dangerous place on Earth”, ovvero “Il luogo più pericoloso sulla terra”. Il motivo è semplice: stiamo parlando di un’isola che si ritiene indipendente ma che è rivendicata dalla Cina e protetta dagli Stati Uniti. Washington, che pure ha accettato di seguire la One China Policy – una politica che afferma l’esistenza di un solo stato sovrano sotto il nome di Cina, in contrasto con l’idea che esistano due Stati, la Repubblica popolare cinese e la Repubblica cinese – ha passato gli ultimi 70 anni a garantire che esistessero due Cine, proteggendo e rifornendo di armi Taipei.
Riprendersi Taiwan, per la Cina, significa togliere di mezzo l’ombra militare degli Stati Uniti da una zona altamente sensibile e collocata a circa 150 chilometri dalle proprie coste. A quel punto, Pechino avrebbe il via libera assoluto (o quasi) all’interno della regione indo-pacifica. Le dinamiche sono complesse, ma tendono a ripetersi nella medesima forma. “Gli Stati Uniti hanno dichiarato lo Stretto di Taiwan mare internazionale, e questo significa che chiunque può mandare là navi da guerra. I cinesi non sono mai stati d’accordo. Ogni volta che transitano portaerei, Pechino stringe i muscoli e invia aerei. A quel punto Taipei attiva i sistemi antiaerei, e questo è un enorme spreco di soldi da parte di tutti i soggetti dell’area. E questo per il mantenimento della presenza in quel territorio”, ha dichiarato Maggiorelli.
Fattore politico
La conquista cinese di Taiwan sarebbe simbolica da almeno due punti di vista. Innanzitutto, come anticipato, Xi Jinping “supererebbe” Mao Zedong all’interno della storiografia cinese. Già, perché l’annessione di Taiwan alla Cina sarebbe considerata a tutti gli effetti un’impresa immortale da inserire nella narrazione governativa, un evento che consentirebbe a Xi di scavalcare il Grande Timoniere, tra mito e storia. Come se non bastasse, la riunificazione completa della Cina consentirebbe allo stesso Xi di soffiare sul nazionalismo del popolo cinese, e mobilitare le masse nel duello a distanza con gli Stati Uniti (senza considerare lo schiaffo morale inflitto ai rivali americani).
Fattore economico
Taiwan sarà pure un’isola di modeste dimensioni, con una superficie di 36mila chilometri quadrati (più o meno la Sardegna e la Corsica messe insieme) e appena 24 milioni di abitanti. Ma ha un prodotto interno lordo di tutto rispetto, visto che il suo pil ha superato quello di Paesi come Svizzera, Svezia e Arabia Saudita, e che è una nazione collocabile tra le prime 20 economie del pianeta. Taipei, inoltre, controlla aziende altamente strategiche in grado di influenzare settori economici sensibili, in primis quello dei semiconduttori.
È qui, infatti, che si concentra dal 40% al 65% della produzione mondiale di questi prodotti, necessari per realizzare auto, smartphone, pc, ma anche strumenti militari e medici, tanto per fare un brevissimo elenco. La percentuale schizza all’85% se consideriamo i semiconduttori più avanzati. “Il commercio è sbilanciato dalla parte cinese. In altre parole, Taiwan dipende da Pechino, visto che la maggior parte delle esportazioni taiwanese è diretta in Cina. Ma in alcuni settori strategici vale l’opposto: è la Cina che dipende da Taiwan”, ha puntualizzato Maggiorelli. Va da sé che inglobare in un colpo solo un’economia del genere, e con lei le più importanti rotte commerciali marittime della regione, per la Cina, rappresenterebbe una vittoria schiacciante anche e soprattutto ai fini geopolitici.