Alla fine dei conti, l’attuazione della Brexit è stata un evento epocale per l’Unione europea, la quale per la prima volta ha dovuto “salutare” un Paese membro dando vita per la prima volta alla procedura di esclusione. Qualcosa che fino ad adesso non era mai successo e che ha spiazzato sia Londra che Bruxelles, dando luogo a dei negoziati che si sono protratti quasi fino alla fine dello scorso 2020. E tutto ciò in un contesto segnato dalla pandemia di coronavirus e dalla crisi economica, che non ha fatto altro che contribuire all’aumento delle tensioni e delle problematiche di fondo da trattare.
In conclusione, però, l’accordo era stato trovato. Non forse il migliore degli accordi possibili – sia per l’Unione europea sia per il Regno unito – ma tuttavia il massimo che si potesse ottenere. Ma adesso, dopo la decisione unilaterale di Londra di posticipare l’entrata in vigore effettiva dei controlli doganali nel Canale d’Irlanda per sedare il disappunto degli unionisti irlandesi e per riorganizzare il proprio apparato doganale, il banco rischia nuovamente di saltare.
L’accusa di Dublino a Londra: “Da voi perverso nazionalismo”
Sono state proprio le parole espresse dal governo guidato da Boris Johnson in relazione alla questione doganale del Canale ad accendere la rabbia della vicina Irlanda. Il ministro degli esteri irlandese, Simon Coveney, ha infatti etichettato come semplice e “perverso nazionalismo” il modus operandi con il quale è stata gestita la questione Brexit. E, in particolare, si è soffermato sul modo in cui il Regno unito avrebbe privilegiato il dialogo con Washington invece che concentrarsi su quelli che, fino a prova contraria, rimarranno comunque i veri alleati principali.
Un duro attacco, insomma, quello portato avanti dall’Eire nei confronti di Londra e che potrebbe ben presto ottenere il sostegno anche da parte degli altri Paesi comunitari. Perché quando si parla dell’isola d’Irlanda, purtroppo, le questioni principali non si limitano alle semplice diatribe doganali, ma devono essere analizzate e gestite sempre in correlazione al delicato ambiente sociale in cui sono contestualizzate. E proprio con la Brexit, una stagione come quella dei Troubles che sembrava essere stata finalmente superata potrebbe invece nuovamente vedere una sua rinascita.
La trappola intorno al canale d’Irlanda
Mentre in un qualsiasi altro territorio poco sarebbe importato se non dal punto di vista logistico dove fosse stata posta la dogana, tutt’altro discorso vale per l’Irlanda del Nord. A causa della controversa storia della regione, della questione irlandese non ancora completamente risolta e dal forte attaccamento protestante a Londra porre una linea di separazione tra il Regno Unito – sebbene essenziale per il rispetto delle tariffe doganali – è molto complicato. Chiudere i 499 chilometri di confine con l’Eire con una dogana sarebbe intollerabile per la popolazione cattolica dell’Ulster, che proprio grazie alla libera circolazione sull’isola si avvicinò a quelli che poi passarono alla storia come gli Accordi del Venerdì Santo. Al tempo stesso, però, posizionare i controlli doganali nel piccolo braccio di mare che separa le due isole significa porre uno sbarramento tra Belfast e Londra, infastidendo oltremodo le posizioni delle frange unioniste della popolazione. E non ponendo alcun confine, in ultima battuta, sarebbe impossibile rispettare gli accordi presi con Bruxelles.
Nel corso del 2021, però, la posizione scelta dal governo britannico sarà proprio quest’ultima, in uno scenario però che non potrà continuare in eterno e che, presto o tardi, necessiterà di essere rivisto. Soprattutto perché, come evidenziato sempre dal ministro degli esteri Coveney, l’assenza di controlli altro non è che l’ennesima “promessa mancata” di Londra nei confronti dell’Unione europea e che metterebbe il Regno di fronte ad una non evitabile perdita di credibilità.
Downing Street torna “vincolata” all’Ulster?
Benché non sia la regione più popolosa del Regno Unito e anche se da essa non dipende la parte maggiore del Pil del Paese, l’Ulster è stata per anni in grado di tenere sotto scacco i governi britannici. La stagione segnata dai Troubles e le vittime provocate dagli scontri tra i separatisti cattolici dell’Ira e i lealisti protestanti sono una memoria ancora ben scritta nella memoria di tutti gli irlandesi e nei loro libri di storia. E soprattutto, portano con sé una serie di episodi, di ricordi e di tragedie che quasi nessuno sull’isola vorrebbe rivedere ancora una volta.
Gestire la Brexit, in fondo, significa ancora una volta gestire la secolare “questione irlandese”. Una problematica che gli ultimi premier britannici erano riusciti quasi completamente ad evitare ma che adesso potrebbe diventare tematica principale per l’agenda interna del governo Johnson. E soprattutto, una situazione dalla difficile gestione che potrebbe però divenire la cartina al tornasole per la valutazione dell’operato dell’esecutivo che passerà alla storia per aver traghettato Londra fuori dall’Unione europea.
E in conclusione, dunque, ancora una volta le scelte di Westminster potrebbero rimanere legate a quella che sarà la “migliore delle soluzioni possibili” per la gestione sociale dell’Ulster, prima ancora che per il rispetto degli accordi doganali e per i ritorni economici. Tutto questo perché, in alternativa, le prime pagine dei giornali inglesi potrebbero tornare a parlare in modo preponderante non soltanto della crisi economica e della crisi sanitaria, bensì di una serie di pulsioni nei quartieri dell’Irlanda del Nord.