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Dalla Brexit dipende la tenuta dell’Unione europea per come l’abbiamo conosciuta. Ma la Brexit dipende dalla nottata elettorale di oggi. Il Regno Unito sta per decidere, probabilmente una volta per tutte. Perché la tornata del 12 dicembre è davvero un secondo referendum mascherato. Boris Johnson contro Jeremy Corbyn: non è una sfida personalistica, ma la fotografia di una polarizzazione politica derivante da anni di incertezze. Il 23 giugno del 2016, mentre si votava per la permanenza o meno nelle strutture istituzionali europee, conservatori e labouristi erano molto diversi da come sono adesso. Il populismo sovranista non era ancora così chiacchierato, mentre la sinistra progressista non si era ancora riposizionata dalle parti del massimalismo. In questi tre anni e mezzo sono cambiati molti paradigmi della politica britannica. Quello che prima si studiava in potenza, adesso è negli atti.

La storia della Brexit ha ormai origini datate: nasce nella campagna elettorale del 2015, quando il giovane conservatore David Cameron promise agli elettori un referendum sulla permanenza nella Ue. Non sembrava qualcosa di serio. Eppure quella promessa venne mantenuta. Il resto è abbastanza noto. Il fatto che la maggioranza dei cittadini del Regno Unito sarebbe stata a favore del leave non era stato previsto. Lo scossone provocato durante quella serata è paragonabile solo a quello dipendente dalla vittoria di Donald Trump, che avrebbe avuto luogo qualche mese dopo.

La protagonista indiscussa delle fasi post-referendum è stata Theresa May. Qualcuno pensava fosse arrivata la nuova Margaret Thatcher. La gestione di quei processi – tutti tesi alla trattativa infinita – ha raccontato di una sconfitta dietro l’altra, sino alla resa. Ma i numeri prescindono da chi deve farci i conti: Boris Johnson, che dopo aver vinto le primarie interne si è insediato come primo ministro in quanto leader dei conservatori, è finito nel medesimo ginepraio. Una triangolazione senza via d’uscita con Bruxelles e con una maggioranza che, nel frattempo, diveniva sempre più frangibile.

Sullo sfondo, sin da principio, c’è stato il dibattito sul “come”: compiere una “soft Brexit”, ossia un’uscita mediata da un accordo con l’Europa; mettere in moto i meccanismi tesi ad una “hard Brexit”, ossia un’uscita non mediata da un accordo con l’Europa. Se ne è parlato fino a qualche settimana fa, quando Boris Johnson è riuscito a contrarre un patto contenente le disposizioni sullo stato dell’unione doganale dell’Irlanda del Nord, che di fatto resterebbe nella Ue. Una via di mezzo, quindi, che il Parlamento ha comunque deciso in qualche modo di ricusare. Con tutto quello che ne è conseguito attorno alla dialettica del “blocco” dei lavori parlamentari e di ostruzionismo da parte dell’opposizione.

Per questo, in fin dei conti, Boris Johnson ha chiesto ed ottenuto nuove elezioni. Ma serve che gli elettori britannici gli servano su un piatto d’argento la possibilità di fare scacco matto. Altrimenti, con ogni eventualità, assisteremo ad un secondo referendum sulla Brexit. Quella è la strategia del Partito Labourista guidato da Jeremy Corbyn, che nel frattempo sta cercando di recuperare terreno prezioso a sinistra, ponendo l’accento sui temi sociali. Gli ultimi sondaggi lasciano intendere come la partita si giochi sul filo del singolo scranno. L’Unione europea, comunque vada a finire, può solo stare a guardare. I sudditi di Sua Maestà, ancora una volta, hanno optato per essere gli unici artefici del loro destino.

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