In teoria, l’elezione di Joe Biden avrebbe dovuto riportare le relazioni tra Unione europea e Stati Uniti ai fasti di un tempo. A quando cioè il baldanzoso Donald Trump, il suo America First e i numerosi screzi da lui tirati in ballo – dal braccio di ferro su quali rapporti tenere con l’Iran al North Stream 2, passando per i vari dissidi di natura commerciale – erano ancora in là a venire. Molti osservatori, in seguito alla sconfitta elettorale di Trump, pensavano semplicemente che per l’Europa il peggio fosse passato, ignorando tuttavia le possibili conseguenze della situazione sanitaria.
È accaduto che uno dei primi provvedimenti varati da Biden consistesse nel rafforzare il piano di vaccinazione americano contro il Sars-CoV-2. A differenza di The Donald, il neopresidente ha subito forzato la mano sul Covid: niente tentennamenti e azioni istantanee nel tentativo di arginare la curva epidemiologica. Casualmente, all’indomani dell’annuncio di Biden di voler immunizzare 100 milioni di americani nel giro di 100 giorni attingendo alle fiale del vaccino Pfizer, l’Europa è rimasta a secco di dosi. Il 15 gennaio, la casa farmaceutica statunitense ha bussato alla porta di Ursula von der Leyen, comunicando il taglio delle forniture dei vaccini ai Paesi membri dell’Ue. Motivo ufficiale: lavori di potenziamento delle strutture, così da rendere gli stabilimenti propensi a sfornare ancora più dosi.
Il nodo vaccini
La morale della favola è che gran parte dei governi dell’Unione europea si sono visti ridurre i carichi di vaccini che attendevano da tempo; gli stessi concordati con l’Ue, acquistati e stabiliti da regolari contratti di vendita. Vero: gli accordi intercorsi tra Bruxelles e le case farmaceutiche – in questo caso Pfizer – sono a dir poco accondiscendenti nei confronti delle aziende. Questo discorso è utile per spiegare la debolezza intrinseca dell’Europa, che ha portato avanti le trattative in nome di tutti i Paesi Ue e promesso una suddivisione di quote delle dosi, salvo poi ritrovarsi attaccata su tutti i fronti.
Già, perché le nazioni, complice i ritardi nelle consegne di Pfizer – e la lentezza burocratica con la quale l’Europa sta approvando nuovi vaccini – sono state costrette a cambiare i loro piani vaccinali. E dunque: meno vaccini e meno persone protette dal coronavirus. Un danno piuttosto importante, al quale c’è chi ha provato a porre rimedio in autonomia. È il caso dell’Ungheria, che ha pensato bene di accogliere a braccia aperte sia il vaccino russo Sputnik V, che i sieri cinesi. Il tutto, senza aspettare autorizzazioni da Bruxelles. I procedimenti sull’efficacia degli antidoti e la loro approvazione ha letteralmente bypassato il procedimento allestito dall’Europa. Lo stesso iter che ha fin qui scatenato le ire di un discreto numero di leader e ministri.
Pfizer, Usa e Ue
Da questo punto di vista, si possono fare un paio di considerazioni. La prima: l’Unione europea ha cercato di tirare a lucido la propria immagine puntando sui vaccini – riscattando un decennio deludente durante il quale le istituzioni europee sono apparse distanti dai cittadini -, centrando però un vero e proprio buco nell’acqua. Il motivo è semplice: Bruxelles, dopo aver incassato le legittime lamentele dei Paesi membri dell’Ue, non è riuscita a farsi valere di fronte alle multinazionali. Sono queste ultime, infatti, a tenere il coltello dalla parte del manico. E per giunta grazie ad accordi non proprio eccelsi stipulati con la stessa Unione.
La seconda: considerando che Pfizer ha congelato l’Europa per – sembrerebbe – concentrarsi altrove – per lo più sull’America, ma anche su Israele – non è da escludere un possibile raffreddamento nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la stessa Unione europea. Detto altrimenti, l’Ue potrebbe presto ritrovarsi di fronte a una sorta di cortocircuito: Washington, che a parole comunica di essere vicina all’Europa, può essere percepito da alcuni come l’alleato di Serie A che “soffia” – legalmente – i vaccini al partner che dichiara di proteggere. Chissà che un’immagine del genere non possa creare una piccola crepa nei rapporti tra gli Usa di Biden e l’Unione europea.