I fatti del 6 gennaio al Campidoglio hanno aperto una ferita profonda nel Partito repubblicano. L’assalto contro il palazzo del Congresso e la posizione di Donald Trump hanno fatto deflagrare tutte le contraddizioni interne al Gop. Sia chiaro, anche la controparte dem ha lacerazioni profonde che potrebbero venire a galla sotto la presidenza di Joe Biden, ma il particolare momento costringe molti repubblicani a una profonda riflessione.

La stagione che si aprirà il prossimo 20 gennaio, giorno dell’insediamento del 46esimo presidente, sarà molto complessa per i repubblicani perché dovranno affrontare una serie di temi e questioni delicate. Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 il partito non solo ha perso la Casa Bianca, ha mancato (di poco in realtà) l’aggancio alla Camera dei rappresentati e perso il controllo del Senato con la sconfitta nei due ballottaggi della Georgia. Ma la questione forse più delicata e complessa è sicuramente l’eredità di Donald Trump, se tenerla per soddisfare la base, se archiviarla in fretta cercando di dimenticarla o trovare un compromesso.

I moderati che vogliono rottamare Trump

Per il momento quello che è certo è che l’assalto a Camera e Senato dopo il comizio di Donald Trump ha ridato fiato alle componenti del partito che non vedevano l’ora di liberarsi del tycoon. Per molti di loro gli ultimi due mesi sono stati indigeribili tra il rifiuto di ammettere la sconfitta alle elezioni, gli attacchi ad altri funzionari del Gop come nel caso della famosa telefonata al segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger e l’assalto al Campidoglio.

Come ha scritto gran parte della stampa americana le fila di chi vuole superare la stagione di Trump si ingrossano sempre di più. Un crescente gruppo di legislatori e strateghi repubblicani si è espresso pubblicamente contro il presidente uscente. I segnali di “disaccoppiamento” sono andati in almeno tre direzioni diverse. La prima riguarda la stessa amministrazione, con le dimissioni della segretaria ai Trasporti Elaine Chao e della collega all’Istruzione Betsy DeVos, e di una serie di altri funzionari e membri dello staff.

La seconda direzione è invece quella di chi ha sempre mal digerito la guida del tycoon. Nelle ultime ore diversi moderati hanno lanciato violente bordate contro Trump. Per il governatore repubblicano del Maryland, Larry Hogan: “Non c’è dubbio che l’America starebbe meglio se il presidente si dimettesse o fosse rimosso dall’incarico”. Critiche sono arrivate anche dai colleghi repubblicani alla guida di Vermont e Massachusetts. Nella giornata dell’8 gennaio è arrivato anche uno scossone dalla senatrice repubblicana dell’Alaska, Lisa Murkowski, che non solo ha chiesto a Trump di dimettersi, ma ha anche lasciato intendere di poter abbandonare il partito, di fatto sbilanciando ancora di più la minoranza alla camera alta del Congresso.

C’è poi un terzo gruppo di critici, quelli che fino al 5 gennaio avevano lavorato con Donald Trump e in molte occasioni difeso il suo operato, ma che dopo i fatti di Capitol Hill hanno fatto marcia indietro. È il caso di molti senatori, in particolare l’ex capo della maggioranza Mitch McConnell che in un paio di interventi ha difeso il processo democratico respingendo le critiche a chi parlava di brogli. Ma anche del senatore del Sud Carolina Lindsey Graham che ha sottolineato come l’assalto al Campidoglio sia da imputare alle azioni del presidente.

I rischi in vista del 2022

Per molti politici repubblicani i fatti del 6 gennaio e le brucianti sconfitte in Georgia sono suonati come un campanello di allarme in vista delle elezioni di metà mandato del 2022. La sensazione è che sempre più Stati e distretti stiano diventando color porpora e quindi sempre più contenibili da parte dei democratici. Il rischio, sottolineano diversi analisti, è quello di perdere terreno i quelle parti del Paese che mostrano una crescita demografica ed economica più rapida e che spesso hanno una composizione culturale più diversificata.

Il deputato repubblicano Tom Reed, eletto nel 23esimo distretto dello Stato di New York, è considerato uno degli esponenti dell’area moderata del Partito e in questi giorni ha provato a delineare la sua strategia per il prossimo futuro del partito. Parlando con il New York Times ha spiegato che in vista delle midterm il rischio principale è quello di una vasta campagna dei dem per dipingere il Gop come un partito pericoloso per la democrazia. Per questo sarà necessario “non preoccuparsi troppo della politica per la base, ma anzi resistervi”. L’idea dei centristi del Gop sarebbe quindi quella di intraprendere una legislatura di compromesso con l’amministrazione di Joe Biden, almeno su grossi temi di fondo. Ma quanto è applicabile il piano di Reed?

Una nuova generazione di politici trumpiani

Per cercare di rispondere a questa domanda partiamo da due fatti all’apparenza scollegati. Il primo ci riporta all’assalto a Capitol Hill e alle successive indagini. Stando alle prime ricostruzioni tra gli assalitori c’erano almeno una ventina di deputati statali del partito repubblicano, come uno dei rappresentanti della West Virginia arrestato dall’Fbi. Il secondo ci porta invece in Arizona dove un gruppo di repubblicani ha avanzato l’ipotesi di creare uno nuovo intorno a Donald Trump.

Questi due fatti apparentemente scollegati mostrano come negli ultimi quattro anni si sia creato un strato di politici locali che non sono disposti ad abbandonare il presidente uscente e che anzi si candidano a raccoglierne l’eredità. Se è vero che tra le persone che si sono espresse maggiormente contro il presidente Trump ci sono gli esponenti dell’élite politica del Gop, molti giovani deputati si preparano a mandarli in pensione.

J.C. Martin, capo dei repubblicani della contea di Polk, in Florida, ha sintetizzato come il prossimo futuro ci sarà un rinnovamento, trumpiano, della classe politica repubblicana. Mitch McConnell e Mitt Romney, ha spiegato, «sono icone del passato» e che sopratutto «il nome Trump nel partito repubblicano è più forte di quanto sia mai stato».

Uno spirito simile si può rintracciare anche nella Camera dei rappresentanti. Esiste in fratti un fronda di candidati pronta a portare avanti l’agenda del presidente al di là degli episodi del Campidoglio. Non è un caso infatti oltre cento di loro abbiano approvato le mozioni che bocciavano l’assegnazione a Joe Biden dei grandi elettori di Arizona e Joe Biden.

Qualche ora dopo l’assalto al Congresso a migliaia di chilometri di distanza, in Florida, si teneva il meeting invernale del Republican National Committee. Fonti anonime sentite dal Washington Post hanno raccolto qualche malumore ma alla fine il sentimento prevalente segna ancora un vasto supporto per Trump. Giovedì mattina il presidente ha fatto una breve telefonata accolta con applausi e attestati di stima da parte dei presenti. Sempre secondo le ricostruzioni un esponente del Nevada avrebbe formalmente chiesto al tycoon di rimanere impegnato nel partito.

Il fatto che la presa di Trump sul Gop sia ancora forte è certificato anche dalla conferma di Ronna McDaniel alla guida del RNC. McDaniel è stata più volte difesa e incoraggiata da Trump e rieletta, senza sfidanti, all’unanimità proprio grazie all’appoggio del presidente.

Quello che infatti si sta profilando è un braccio di ferro a distanza tra le élite del partito e la nuova classe politica di deputati locali e membri della camera dei rappresentanti, come il leader della minoranza Kevin McCarthy, che si è dimostrato tra i più strenui oppositori di Joe Biden votato a favore delle mozioni che chiedevano il blocco della nomina dei grandi elettori di Arizona e Pennsylvania.

La base sempre più fedele a Donald Trump

La spaccatura interna ai funzionari di partito si ritrova anche tra il partito stesso e la base elettorale. Come ha notato il Times il divario tra i leader del Gop e gli attivisti non è mai stato così ampio da quando è iniziata l’era di Trump. Non devono quindi stupire le forti contestazioni che i senatori del Gop raccolgono mentre sono in viaggio. Ultimo in ordine di tempo ad essere preso di mira è stato proprio Lindsey Graham, duramente preso di mira mentre si trovava in aeroporto.

Uno dei deputati più lucidi sul tema è stato il deputato texano Chip Roy, del Texas. Ex capo dello staff di Ted Cruz e tra i suoi strateghi durante le primarie repubblicane del 2016, Roy ha sottolineato come il Gop debba trovare un modo di far convivere le sue contraddizioni: «Se il Partito Repubblicano è incentrato esclusivamente sullo Trump, falliremo», ha spiegato, ma allo stesso tempo «se dimentichiamo cos’era del suo messaggio che attirava le persone veramente frustrate, falliremo anche noi».

Le parole di Roy prendono una nuova luce se si osserva un sondaggio condotto da YouGov subito dopo i disordini del 6 gennaio. Per il 68% dell’elettorato americano l’assalto al Campidoglio non è stato un attentato alla democrazia. Non solo. Il 45% di loro si è detto favorevole in qualche misura all’assalto avvenuto ai danni del Congresso, mentre per quanto riguarda la responsabilità di Donald Trump ben il 53% ha detto di non biasimarlo.

La spaccatura tra base del partito e l’élite politica

La spaccatura tra la base del partito e parte della classe politica è quindi evidente. Una delle difficoltà maggiori sarà quella di tenere all’interno del Gop sia l’anima radicale della base che gli elettori centristi che una volta votavano per il partito repubblicano. L’ex deputato dell’Arizona Stan Barnes ha spiegato come le fazioni in competizione nel partito siano sempre esistite, ma che i fatti del 6 gennaio abbiamo scavato un solco ancora più profondo.

Il problema è che non è possibile rinunciare a una delle due. Non può fare a meno della base perché è grazie alla base che spesso vengono attivati gli elettori, ma allo stesso tempo non può fare a meno dei vertici che frequentano i grandi finanziatori e contribuiscono creare relazioni in Stati spesso in bilico.

Fino al 5 gennaio l’idea principale degli strateghi repubblicani era quella di tenere Trump nell’orbita del partito per migliorare ancora la coalizione che permise la sua vittoria nel 2016. I leader pensavano di radunarsi attorno a una figura simile al tycoon, ma meno polarizzante, che fosse in grado di non allontanare la base e allo stesso tempo di raccogliere l’appoggio di leader storici. Ma ovviamente il sogno si è infranto nei tafferugli del 6 gennaio rendendo ancora più complicato gestire l’eredità del 45esimo presidente.

Un’importante stratega repubblicano sentito da Politico ha definito l’assalto al Campidoglio come una sorta di 11 settembre politico. “L’establishment del partito che non sopportava Trump è pronto a colpire. Ora resta divedere tra loro e la base chi avrà la capacità migliore di resistere agli urti”.