Ogni nuovo anno è quello “decisivo” per il futuro del mondo, di un continente, di un Paese: si dice così da sempre, un po’ per scaramanzia e un po’ per tradizione. Ma questa volta è diverso perché il 2020 può davvero essere considerato il breaking point della storia politica e istituzionale dell’Unione europea. In altre parole, Bruxelles è di fronte a un bivio e deve scegliere quale strada prendere. Il primo sentiero è quello più in discesa ma è anche il più pericoloso. Imboccando questo percorso l’Europa abbraccerebbe la continuità, rischiando tuttavia di implodere da un momento all’altro a causa delle tante (e irrisolte) contraddizioni interne. Insomma, tutto uguale a prima: le élite chiuse nelle stanze del potere a decidere quale misura economica applicare per far quadrare i conti di pochi e il popolo distante anni luce, mai chiamato in causa e tanto meno ascoltato. La seconda strada implica invece un cambio totale di registro: è una via in salita ma è anche l’unica che può offrire una ventata d’aria fresca a una Commissione europea sempre più in difficoltà di fronte alle sempre più numerose tensioni politiche europee.
L’ambiente non basta
Dalla Brexit al gruppo di Visegrad, dall’ombra dei sovranisti ai partiti di estrema destra: sono tante le sfide che l’Unione europea dovrà superare nel corso del 2020. Per superarle indenne, Bruxelles dovrà rimboccarsi le maniche ma anche recitare una sorta di mea culpa; soltanto così, voltando pagina, l’Europa potrà redimersi dei suoi numerosi peccati. Eppure la strategia che ha deciso di adottare Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, sembrerebbe andare in tutt’altra direzione. Anziché affrontare i problemi, la Von der Leyen dà l’impressione di volerci girare attorno, probabilmente per paura di scottarsi. Non si spiega altrimenti la scelta di mettere il tema del Green deal al centro del tavolo. Sia chiaro, la tutela dell’ambiente è materia nobile e da perseguire. Però non si capisce cosa debba fare di più l’Europa, visto che oggi il Vecchio Continente è responsabile di meno del 10% delle emissioni planetarie. Vero: l’ambientalismo può sì essere considerato una sorta di jolly capace di far passare in secondo piano i dossier più scottanti, ma dall’altra parte rischia di rivelarsi un pericoloso boomerang. Il piano della Commissione prevede infatti che l’Ue diventi il primo continente a “emissioni nocive zero” da qui al 2020, ma ci sono già diversi Stati che hanno alzato il sopracciglio di fronte a una prospettiva che li danneggerebbe economicamente. È il caso, ad esempio, di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria.
Dalla Brexit ai limiti di spesa
A questo proposito la data sul calendario da cerchiare con la matita rossa è il prossimo 14 gennaio, quando a Strasburgo dovrebbe essere presentato il cosiddetto Meccanismo della transizione giusta (Just Transition Mechanism). Si tratta, in poche parole, di quel particolare fondo che nelle intenzioni di Bruxelles dovrà sostenere le regioni più arretrate dell’Europa a mettere in pratica la riconversione e la transizione energetica. Accanto alle trattative sul rafforzamento dell’unione monetaria e bancaria (Mes compreso) e a quelle che dovranno definire nel dettaglio la Brexit, l’Ue deve fissare i limiti di spesa dell’intera Europa per i prossimi sette anni, stabilendo tra l’altro l’ammontare dei contributi per i singoli Stati membri. A maggio ci sarà poi da trovare un accordo comune sulla redistribuzione dei migranti. In mezzo a tutto questo l’Italia resta sempre l’osservata speciale numero uno, sia per la sua instabilità politica sia per i suoi conti ballerini. Se per l’Europa il 2020 non è una “prova del nove” poco ci manca.