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Il Pacifico, o se vogliamo l’Indo-Pacifico, è l’ultimo epicentro della competizione tra Stati Uniti e Cina. Iniziato come guerra commerciale, e proseguito come confronto ideologico, il testa a testa sino-statunitense sta per entrare in una nuova fase. Molto più pericolosa delle precedenti, per il rischio di dare vita ad un conflitto militare vero e proprio, e pure più imprevedibile, per le molteplici e numerose variabili in campo.

La regione in questione ha infatti un peso geopolitico maggiore di quanto le sia ampiamente riconosciuto, in quanto il suo controllo effettivo consente al vincitore della contesa di dominare la scena globale. Per Washington, che si considera da sempre una potenza marittima, il Pacifico è l’autostrada prediletta che collega l’Occidente all’Oriente. La visione del mondo americanocentrica, inoltre, si basa sul mantenimento della libertà, oltre che sulla garanzia di sicurezza e stabilità.

Stiamo parlando di concetti che mal si sposano con la griglia interpretativa dell’altro attore protagonista, la Cina, che concepisce il pianeta come una “comunità dal futuro condiviso”, parla di “relazioni win-win” – dove gli affari non sono influenzati da ipotetiche mancanze democratiche degli altri partner – adotta una formula politica inedita, il “socialismo con caratteristiche cinesi”, agli antipodi rispetto al sistema Usa, e intende tornare al centro del palcoscenico internazionale a suo modo. Dal suo punto di vista, la Cina percepisce l’intera area indo-pacifica come una sorta di anticamera da superare per proiettare la propria forza – non solo economica – oltre i confini asiatici.

Mappa di Alberto Bellotto

L’importanza dell’Indo-Pacifico

L’ostacolo principale che impedisce a Pechino di raggiungere l’agognato obiettivo è la cosiddetta strategia della catena di isole (Island Chain Strategy), concepita dall’allora Segretario di Stato Usa, John Foster Dulles, nel 1951, in piena Guerra Fredda. Dulles riteneva che il potenziale di un’alleanza sino-sovietica potesse essere limitato, o anche azzerato, stabilendo una catena contenitiva nel Pacifico occidentale sfruttando gli alleati locali.

La prima catena di isole inizia con le Isole Curili e termina tra il Borneo e la parte settentrionale delle Filippine. Nella versione più diffusa, la seconda catena di isole comprenderebbe le isole giapponesi di Ogasawara e Vulcano, oltre alle isole Marianne (fra cui l’isola di Guam, importante base militare Usa), che sono parte del territorio degli Stati Uniti. La terza catena, infine, inizia dalle Isole Aleutine e termina in Oceania, con un occhio di riguardo per le Isole Hawaii, anch’esse parte integrante del territorio degli Stati Uniti, nonché sedi di basi navali statunitensi. Ebbene, oggi queste catene rappresentano tre barriere che soffocano i sogni di gloria della Cina, schiacciandola lungo le proprie coste e, di fatto, impedendole di diventare (o tornare ad essere) una potenza marittima.

Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono tornati ad inserire il Pacifico in cima all’agenda delle priorità. Washington ha elevato il Quad (Quadrilateral Security Dialogue), il gruppo che collega gli Stati Uniti all’Australia, all’India e al Giappone, ad un vertice regolare. Ha inoltre accettato di aiutare l’Australia a costruire sottomarini a propulsione nucleare nell’ambito del patto AUKUS con il Regno Unito. La strategia indo-pacifica della Casa Bianca, pubblicata nel febbraio 2022 (consultabile qui), ha inoltre menzionato alleati o alleanze più di 30 volte in un documento di 19 pagine.

Ma se gli Stati Uniti di Biden sono diversi da quelli di Donald Trump, anche la Cina di Xi Jinping è ben lontana dal Paese guidato da Deng Xiaoping o Hu Jintao negli ultimi decenni. Dopo anni in sordina, la Repubblica Popolare Cinese non si accontenta più di assumere un basso profilo e aspettare il momento giusto. Al contrario, afferma con forza i propri interessi nazionali e spinge a rivedere gli assetti regionali e internazionali. Xi, tra le altre cose, ha militarizzato il Mar Cinese Meridionale, dopo aver promesso al presidente Obama che non lo avrebbe fatto, incrementato la pressione per risolvere la questione taiwanese e scelto di rafforzare l’Esercito Popolare di Liberazione, marina compresa.

Mappa di Alberto Bellotto

La variabile Ue

È impossibile tuttavia analizzare la sfida Usa-Cina nell'(Indo-)Pacifico senza parlare dell’Unione europea. Anche perché l’Indo-Pacifico crea il 60% del pil globale e due terzi della crescita globale, è la seconda destinazione delle esportazioni dell’Ue e ospita quattro dei dieci principali partner commerciali di Bruxelles. Le destabilizzazioni regionali mettono dunque a rischio affari e commercio.

Un chiaro segnale della direzione verso la quale stiamo andando è il forte rafforzamento militare della zona. La quota della spesa militare globale dell’Indo-Pacifico è passata dal 20% nel 2009 al 28% nel 2019 e sta aumentando ulteriormente. In altre parole, significa che i Paesi di questa regione stanno investendo molto nelle loro forze armate perché non sono sicuri di cosa riserverà il futuro. L’interesse delle potenze europee, dunque, è proprio questo: che l’ordinamento regionale resti aperto e regolamentato.

Le esportazioni europee verso i paesi dell’ASEAN, ad esempio, sono cresciute da 54 miliardi di euro nel 2010 a 85 miliardi di euro nel 2019, mentre le importazioni dai Paesi dell’ASEAN sono cresciute ancora di più, da 72 miliardi di euro nel 2019 a 125 miliardi di euro. Entro il 2050, l’ASEAN è destinata a diventare la quarta economia mondiale. E l’Ue non vuole restare in seconda o terza fila.

Sul campo militare, in passato l’Ue aveva sempre delegato i temi della difesa e della sicurezza dell’Indo-Pacifico agli Stati Uniti. Con l’avvento della Cina di Xi sono aumentate le esercitazioni militari congiunte tra le potenze europee e i vari partner locali, in concerto con la regia statunitense.

In ogni caso, poiché l’Ue non ha ancora assunto una posizione forte su nessuna delle questioni di sicurezza dell’Indo-Pacifico, finora Bruxelles è stata considerata come un attore secondario. Eppure, nel caso in cui le tensioni tra Washington e Pechino dovessero sfociare in uno scontro militare, a seconda di ciò che succederà, l’Europa rischia di finire nell’occhio del ciclone al fianco degli Usa. È per questo che il continente europeo non può che farsi trovare pronto di fronte a qualsiasi evenienza.

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