Le trattative tra Armenia e Azerbaigian per la risoluzione della questione karabakha iniziate con gli accordi trilaterali del gennaio 2021, all’indomani della fine della seconda guerra del Karabakh, potrebbero essere arrivate ad un punto di svolta.
Il 22 maggio, nel corso di una conferenza stampa, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato che Erevan è pronta a riconoscere la sovranità azera sul Karabakh. Le condizioni poste da Pashinyan a Ilham Aliyev sono soltanto due: che siano date tutele certe agli armeni karabakhi, che Baku riconosca l’integrità territoriale di Erevan nella sua interezza.
La pace nel ventre molle della Transcaucasia potrebbe essere dietro l’angolo. Come potrebbe esserlo una nuova guerra, o un ritorno al gelo, giacché le aperture di Pashinyan potrebbero produrre gli effetti contrari a quelli preventivati. La domanda che il primo ministro armeno dovrebbe chiedersi e se gli armeni siano pronti e volenti ad accettare la perdita definitiva della loro “terra santa”, il Karabakh.
Pashinyan è pronto
L’Armenia è pronta a sanzionare la sovranità azera sulla vena scoperta più sensibile del Caucaso meridionale, il Karabakh, a patto che l’Azerbaigian sia disposto a dare delle garanzie in termini di diritti e sicurezza agli armeni del luogo e a riconoscere i confini armeni nella loro interezza.
Le dichiarazioni del leader armeno non sono un fulmine a ciel sereno: è dall’avvio del tavolo di pace, inaugurato all’ombra della sconfitta totale subita nella seconda guerra del Karabakh, che circolano periodicamente indiscrezioni su un possibile riconoscimento da parte di Erevan della sovranità azera sul Karabakh. Riconoscimento che priverebbe l’Artsakh, la repubblica separatista che controlla porzioni di alture karabakhe, del suo principale e storico sponsor, l’Armenia, spianando definitivamente la strada ad un accordo di pace con l’Azerbaigian.
L’inarrivabile e impossibile Artsakh, la cui vita è appesa ad un filo chiamato Russia, in cambio della promessa su carta che l’Azerbaigian non cercherà di congiungersi all’exclave del Nakhchivan invadendo e provando ad annettere la provincia di Syunik – ostacolo o fermata centrale, a seconda dei punti di vista, del corridoio di Zangezur.
Più che una resa incondizionata, nella visione di Pashinyan, un Karakakh parzialmente autonomo e un’Armenia che non deve temere nuove guerre di aggressione sono i termini di una pace giusta, equa e lungimirante. Restano soltanto da convincere, a questo punto, la classe dirigente karabakha e l’opinione pubblica armena.
…ma gli armeni?
Pashinyan non è nuovo alle sollevazioni causate dalle sue scelte dovute-ma-impopolari. È sopravvissuto alla mobilitazione delle piazze che, all’indomani dell’obbligata decisione di siglare l’accordo di cessate il fuoco e di cedete i territori del 9 novembre 2020, ne chiedevano le dimissioni (e invocavano il proseguimento dei combattimenti contro l’Azerbaigian). E ha resistito alle proteste antigovernative esplose a cadenza regolare per l’intero arco del 2021-22.
L’ultima volta che aveva parlato di sanzionare il riconoscimento della sovranità azera sul Karabakh, nel settembre 2022, Pashinyan era stato costretto a fare dietrofront: proteste rischiosamente forti. Ma la consapevolezza che non esista altro modo per evitare lo scoppio di una nuova guerra, magari più estesa – e suscettibile di cagionare la perdita di Syunik –, lo ha convinto ad andare avanti e a proporre, infine, la sua idea di pace a Baku.
La popolazione armena potrebbe non capire il peso che Pashinyan, leader di una guerra perduta e di un piccolo Paese circondato da grandi potenze, porta sulle spalle. Non potrebbe capire, e non capirà, perché non ha ancora elaborato il lutto del Karabakh, essendo ferma alla fase del rifiuto e della negazione. Ed è esattamente questo il rischio che corre Pashinyan: che le piazze insorgano con violenza o che delle schegge impazzite provino a sabotare i negoziati con gesti estremi.
Assumendo che Pashinyan riesca a contenere le proteste che lo attendono all’orizzonte, entrerebbe in gioco il fattore Artsakh. Perché è essenziale chiedersi in che modo la classe dirigente della repubblica separatista, una volta messa da Erevan con le spalle al muro, reagirebbe al processo di incorporazione dell’Azerbaigian – se con violenza o se con riluttante ma pacifica arrendevolezza.
Corsa contro il tempo
La sabbia nella parte superiore della clessidra sta finendo. Lungo i confini insanguinati che separano Armenia e Azerbaigian la tensione sta tornando ai livelli del preguerra. I karabakhi sono crescentemente disillusi nei confronti della dirigenza armena e le procedure di disarmo delle loro forze di autodifesa potrebbero incontrare un’accesa resistenza. Erevan è fra una pluralità di fuochi e non esiste scenario in cui non si bruci.
Pashinyan è un pragmatico che vuole assicurare la protezione ai karabakhi e l’inviolabilità dei confini attuali all’Armenia. La Russia ne supporta la leadership, essendo il figliol prodigo tornato alla casa del padre dopo la sconfitta, perché l’alternativa sarebbero degli sciovinisti in grado di far naufragare il processo di pace e di fare il gioco, consapevoli o meno, di chi vorrebbe destabilizzare il Caucaso per distrarla dall’Ucraina. L’Azerbaigian lo sostiene perché è un vinto disponibile al compromesso – occasione irripetibile.
Bruxelles partecipa al processo di normalizzazione armeno-azero, perché pace nel Caucaso significa gas in Europa, dialogando nel dietro le quinte con Mosca, con la quale è in guerra (per procura) nelle terre ucraine. Gli interessi europei e russi, qui, coincidono: la Transcaucasia è una polveriera che non deve esplodere.
Gli Stati Uniti osservano l’evolvere della situazione, corteggiando quelle forze in Armenia che vorrebbero uscire dall’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, espellere il dispositivo militare russo dal loro territorio e un giorno, arsenale permettendo, riaprire i conti con l’Azerbaigian. L’aspettativa di mettere gli armeni contro i russi, facendo leva sui (legittimi) risentimenti dei primi nei confronti della neutralità antagonisticamente filoazera dei secondi.
Mentre Russia e America muovono i loro pedoni nella scacchiera caucasica, ciascuno nella speranza di fare scacco matto all’altro, altri attori guardano e talvolta interferiscono. Perché la questione karabakha non ha mai riguardato solamente i due contendenti e i quattro giganti della regione, Occidente, Russia, Turchia e Iran, ma anche potenze distanti, da Israele alla Cina. Nel Karabakh è bellum omnium contra omnes e coloro che desiderano la pace definitiva dovranno munirsi di irrefrenabile testardaggine.