L’anno appena concluso è stato caratterizzato, sul piano della geopolitica internazionale, dal braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti, impegnati in una rivalità politica che ha avuto le sue più importanti manifestazioni in campo economico ma è stata caratterizzata da numerose schermaglie nella sfera militare. In palio, la leadership globale degli Stati Uniti, che la Cina non mira a rovesciare ma da cui si sta, passo dopo passo, affrancando portando avanti l’ambiziosa strategia di connettività infrastrutturale (“Nuova Via della Seta“) con cui mira a emanciparsi dal domino dei mari di Washington, rafforzando il ruolo dello yuan nei confronti del dollaro egemone negli scambi internazionali e puntando su tecnologie di frontiera come il 5G e l’intelligenza artificiale per essere in testa nella corsa al progresso del domani.

Negli apparati statunitensi da tempo cova un crescente timore per le iniziative di Pechino. Già manifestato nell’era Obama con la strategia del pivot to Asia, che indicava correttamente nell’Estremo Oriente il nuovo baricentro geopolitico del pianeta. Ora amplificato da Trump, in crescente sintonia sul dossier cinese con uno “Stato profondo” che in altri campi avversa e contrasta, in una sfida a tutto campo volta a ridimensionare l’Impero di Mezzo prima che questo possa acquisire una compiuta dimensione planetaria. Anticipando la “trappola di Tucidide“, il timore dello scontro tra l’egemone in declino relativo e lo sfidante in rapida ascesa, forzando il disequilibrio di potenza. Nel 2018 è partito un assalto strategico alla Cina da parte degli Stati Uniti, con il benestare di tutti i centri di potere: Casa Bianca, Congresso, Pentagono, servizi segreti.





Contenere la Cina prima che sia troppo tardi: il proposito degli Usa

Come ha scritto Dario Fabbri sull’ultimo numero di Limes, “anziché pensarsi giustiziere del sistema corrente, la Cina è impegnata a trasformarsi in potenza compiuta. Il Paese è giunto sulla medesima soglia strategica che nella sua millenaria storia non ha mai saputo varcare. Ovvero, rendere economicamente omogenei la costa e il resto del territorio nazionale, vivere maggiormente di sé attraverso un cospicuo mercato interno, diventare una talassocrazia che sappia controllare le rotte su cui si muovono le sue merci”. Obiettivo degli Stati Uniti, secondo l’analista, è prevenire  la realizzazione di questi risultati strategici che garantirebbero alla Cina una coerenza e una coesione interna mai raggiunte in precedenza, rendendola pronta a un ruolo veramente globale.

Da qui un’offensiva a tutto campo per contenere la Cina entro i suoi confini o, addirittura, metterle pressione all’interno di quello che, per ragioni storiche, Pechino considera lo spazio strategico di sua pertinenza. Il Mar Cinese Meridionale è più caldo che mai. Le tensioni su Taiwan e le operazioni di tutela del diritto di navigazione poste in essere da Washington si sono intensificate.

Per indebolire Pechino, Trump vuole fare perno sui suoi importanti alleati tradizionali. Giappone e Australia sono clientes geopolitici di grande importanza, integrati completamente nello spazio securitario statunitense. L’India è senz’altro ostile alla Cina e alla Belt and Road Initiative, ma nonostante l’amicizia tra Trump e Narendra Modi, non è usa alle scelte di campo e punta a un ruolo autonomo, sebbene l’avvicinamento del rivale Pakistan a Pechino giochi per un suo sostegno alla causa statunitense, camuffata in maniera multilaterale attraverso l’iniziativa Quad nell’Indo-Pacifico.

La guerra dei dazi

Nel 2018 gli Stati Uniti hanno avviato una serie di manovre economiche volte a disturbare l’ascesa cinese colpendo le esportazioni di Pechino con crescenti dazi, a cui la Cina non ha potuto sinora reagire con un’offensiva di eguale portata, pur tenendo di riserva la carta delle terre rare

Secondo Fabbri, “lungi dal perseguire un mero riassestamento della bilancia commerciale […] la pressione in atto vuole imporre alla Repubblica Popolare specifiche condizioni geopolitiche”, forzandone l’integrazione più stringente nelle regole del commercio internazionale di matrice liberale sancite dal Wto. Il modello dirigista dell’economia cinese che Xi Jinping ha irreggimentato, proiettandolo a sostegno della sua grande strategia, riversa centinaia di miliardi di dollari nelle iniziative che Washington vuole stroncare utilizzando la leva del commercio.

Costringendo la Cina ad accettare il consensus dell’ordine a guida statunitense, le si potrebbe rendere più difficile la strada verso quell’omogeneizzazione interna che gli Usa vogliono impedire. Non è un caso che, in parallelo allo stringimento del cerchio nel Mar Cinese Meridionale e all’offensiva commerciale, sia partita dal Congresso di Washington un’azione di disturbo sulle violazioni dei diritti umani nella regione occidentale dello Xinjiang, abitata dalla minoranza musulmana degli uiguri, la cui repressione è stata a lungo accettata dagli Stati Uniti in cambio dell’accettazione cinese della retorica della “guerra globale al terrore”.

Lo Xinjiang è vitale per la “Nuova Via della Seta” e Pechino sta puntando a integrarlo a tappe forzate nel tessuto socio-economico della nazione. Colpendo gli interessi di Pechino all’interno del suo territorio, gli Stati Uniti gli ricordano di essere in grado di mettere in discussione la stessa unità nazionale della Cina. Cosa che già accade, a ben vedere, consentendo l’esistenza della “provincia ribelle” di Taiwan.

5G e intelligenza artificiale: la madre di tutte le battaglie

Ciò che la guerra dei dazi nasconde è una sfida senza esclusione di colpi per la supremazia globale nel settore tecnologico di frontiera destinato ad influenzare l’economia mondiale nei prossimi decenni. Nell’ottobre del 2017, Xi Jinping ha tenuto al Congresso del Partito un discorso di più di tre ore in cui esortava il popolo a diventare il numero uno nel campo, perché questa tecnologia cambierà il mondo, fissando a 150 miliardi di dollari gli investimenti previsti nel campo fino al 2030.

5G e intelligenza artificiale rivoluzioneranno numerosi sistemi economici e il controllo delle tecnologie per il loro sviluppo sarà determinante per riscrivere numerosi equilibri di potenza. Temendo le azioni delle cinesi Huawei e Zte in Occidente e i loro legami con gli apparati politico-securitari dell’Impero di Mezzo, gli Stati Uniti hanno esercitato nel settore tutto il peso della loro influenza imperiale, arrivando a richiamare gli alleati alla “scelta di campo”.

Nella sfida tecnologica l’America torna imperiale

Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Canada e Giappone hanno seguito l’egemone mettendo al bando i colossi di Pechino dalle gare per il 5G sul loro territorio. L’arresto in Canada di Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei e direttrice delle operazioni finanziarie del colosso cinese, ha segnato la brusca fine della breve tregua commerciale concordata a inizio dicembre a Buenos Aires da Donald Trump e Xi Jinping e palesa definitivamente la reale natura di una gara senza esclusione di colpi. 

Come ha scritto Giorgio Cuscito sul penultimo numero di Limes, la Cina ha lanciato la sfida alla supremazia degli Usa in campo tecnologico proprio nei settori dell’Ai e del 5G: “La Repubblica Popolare ha ancora qualche lacuna sul piano quantitativo, ma sta rapidamente colmando il divario con gli Usa grazie al forte sostegno governativo alle aziende tecnologiche nazionali, alla grande quantità di metadati a disposizione e al fenomeno dell’imprenditoria cinese”. Per questo, gli Stati Uniti hanno iniziato un’offensiva politica ed economica di ampio respiro per tarpare le ali alla Repubblica Popolare. 

Scenari futuri

Il 2018 ha visto Washington all’attacco su diversi fronti: tecnologia, dazi, diritti umani, rivalità marittime, questione di Taiwan. Gli Stati Uniti vogliono acquisire dividendi dall’attuale divario di potenza e conservare uno status quo a loro favorevole. La Cina di Xi Jinping, per ora, si comporta come i ciclisti staccati sulle salite più dure che provano a recuperare in progressione, senza cambiare i ritmi dei suoi programmi economici e geopolitici. Il calcolo americano è che, sul lungo periodo, la Cina non avrà più fiato per reagire alle sollecitazioni statunitensi.

Difficile dire se il ragionamento sia corretto. Certamente, tra disuguaglianze, inquinamento e debito aggregato la Cina ha grandi sfide da vincere, ma lo stesso si può dire degli Stati Uniti. La svolta strategica dell’amministrazione Trump non ha prodotto, per ora, un indebolimento complessivo della Cina: sarà il tono che la relazione acquisirà nel 2019 a far capire cosa c’è da aspettarsi per il futuro. Tenendo presente che la trappola di Tucidide è un’ipotesi remota, ma che non va mai esclusa definitivamente.

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