Ore difficili per i sudditi di Sua Maestà alle prese con una serie di dossier di non facile risoluzione. Il ciclone che ha travolto Boris Johnson è la ciliegina sulla torta per un Paese che, a dispetto di una tempra secolare, sembra ormai essere privo della resilienza imperiale di un tempo nonostante, come qualcuno ribadì tempo fa ,“in our mind everything is totally connected with UK”. Ma la Gran Bretagna, al netto del suo ruolo politico ed economico, sembra destinata a perdere mordente, un paradiso perduto che stenta a ritrovarsi.
La caduta di Johnson e la crisi dei laburisti
Le dimissioni non sono arrivate dal nulla: Johnson stava già perdendo il sostegno del suo partito, sopravvissuto per un pelo a un voto di fiducia all’inizio di giugno. Solo due settimane dopo, le cose sembravano ancora peggiorare, dopo aver perso due elezioni suppletive in circoscrizioni presumibilmente sicure. Lo scandalo Pincher non è di per sé il motore unico di questa spirale, ma è segno di quanto mala tempora currunt. Si tratta di una crisi ben più ampia, interna ai Tories, che nemmeno il loro leader ha saputo soppesare: nel suo farewell address, Johnson ha cercato di presentarsi come un primo ministro di successo, abbattuto dai capricci del suo partito che ha seguito l’ “istinto di gregge”, termine che continua a non portargli buona sorte.
Dall’altra parte ci sono i laburisti di quel Keir Starmer a cui viene affidata una missione storica, ma che di certo non è Tony Blair, nè in fatto di vision tantomeno in termini di carisma. E sebbene sia complesso edulcorare i disastri compiuti da Jeremy Corbin, secondo Ipsos Mori ben 4 laburisti su 10 sostengono di non avere ben chiare le sue posizioni e la sua visione per il futuro del Paese. Il 53% dell’elettorato confermerebbe questa tendenza interna: Starmer appare evanescente, ambiguo, pertanto incapace-per ora-di utilizzare a suo vantaggio lo sgambetto che la sorte ha tirato al suo avversario.
La disunione del Regno
La crisi interna ai principali due partiti, è solo una degli indicatori di questa generale decadenza. L’integrità territoriale in bilico è il primo segno di questa generale difficoltà britannica a stare nel Terzo Millennio. Uno dei primi dossier pesanti che Johnson lascia, infatti, è quello dell’Irlanda del Nord. Solo pochi giorni fa l’Unione Europea aveva strigliato il gabinetto del premier britannico per il progetto di modifiche unilaterali del Protocollo sull’Irlanda del Nord tuonando con un perentorio “non è il momento per violare il diritto internazionale”. Il progetto di legge andrebbe a riscrivere da parte britannica le condizioni del commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, violando il protocollo che è parte dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito.
Mai sopite, invece, le spinte indipendentiste scozzesi, soprattutto dopo la Brexit. Nuovamente incalzato sul tema, solo pochi giorni fa Johnson aveva affermato che non era il momento di riesaminare la questione del voto sull’indipendenza, in una lettera alla prima ministra scozzese Nicola Sturgeon. Quest’ultima, la scorsa settimana, aveva annunciato i piani per un secondo referendum da tenersi nell’ottobre 2023 promettendo di intraprendere un’azione legale se il governo britannico dovesse bloccarlo.
Il declino della monarchia
Le frequenti indisposizioni dell’inossidabile Elisabetta II da tempo fanno temere per il futuro di Buckingham Palace. Se poi alla senilità della sovrana si aggiunge il ritratto di un figlio che pare non giungere mai al trono e le beghe tra William e Harry, il quadro appare sconfortante. Sempre più britannici abbandonano i propri sentimenti di affetto verso la tradizione per un senso di disagio e anacronismo nei confronti dalla royal family spendacciona. I contribuenti del Regno Unito pagheranno ulteriori 27,3 milioni di sterline (33 milioni di dollari) nei prossimi due anni per colmare una lacuna finanziaria volta a coprire un calo dei profitti presso la Crown Estate, che aiuta a pagare le loro spese. La richiesta segue un aumento del 17% della spesa dei reali lo scorso anno e arriva in un momento in cui il reddito familiare medio del Regno Unito è diminuito per il periodo più lungo dall’inizio dei record nel 1955. I redditi delle famiglie sono inferiori dell’1,3% rispetto all’anno prima, e i lavoratori del settore pubblico hanno lasciato il lavoro in segno di protesta contro le offerte salariali al di sotto dell’attuale tasso di inflazione.
C’è un altro evento, passato in sordina, che segna il passo dei tempi. Il 24 giugno, le nazioni del Commonwealth hanno tenuto un vertice a Kigali, in Ruanda, per discutere di commercio, sicurezza alimentare, problemi di salute e cambiamento climatico. Eppure, il discorso più importante al vertice è stato del principe Carlo, in rappresentanza di sua madre. Il discorso intendeva cementare l’unità del Commonwealth, tuttavia il principe Carlo si è soffermato a lungo sul tema del razzismo coloniale, bollandolo come il fondamento-illo tempore– del Commonwealth stesso. Che significa questo atto di dolore nel cuore dell’Africa ex coloniale? Il tentativo di un futuro sovrano di lasciare il segno o l’ammissione della fine di un’era? Ad ogni modo la dichiarazione è stata avvertita con disagio da numerosi esponenti dell’Unione e di certo non resterà senza strascichi, soprattutto in una fase in cui numerosi Paesi sia avviano verso la forma repubblicana (si veda il caso delle Barbados).
L’assenza di crescita e l’inflazione
Boris Johnson era giunto a Downing Street con la promessa di rinfocolare l’economia britannica, anche e soprattutto attraverso la Brexit.
Tre anni, una pandemia e una guerra in Ucraina dopo, il premier lascia il Paese sull’orlo della recessione. Il costo della vita sta accelerando al tasso annuo più rapido degli ultimi quattro decenni, mentre le famiglie devono affrontare il peggior colpo mai registrato per il reddito disponibile reale. In mezzo a questa successione di shock generazionali, gli esperti affermano che sono state scoperte profonde faglie strutturali, tutte rese più difficili da affrontare da tre problemi: l’eredità dell’austerità; la Brexit; la mancanza di un piano coerente di Johnson per affrontarli tutti.
Tutte le principali economie hanno subito gli effetti devastanti della pandemia sulle catene di approvvigionamento e lo shock per i costi energetici e alimentari causato dall’invasione russa dell’Ucraina, ma il Regno Unito ha avuto gli esiti peggiori. L’inflazione ha raggiunto il massimo degli ultimi 40 anni del 9,1% a maggio, il più alto tra le principali economie del G7, e si prevede che salirà oltre l’11% entro la fine dell’anno nonostante una serie di aumenti dei tassi di interesse. Gli effetti a catena della Brexit hanno esacerbato la carenza di manodopera e aumentato i costi operativi per le imprese. Il costo delle importazioni è stato anche spinto al rialzo da un forte calo del valore della sterlina.
Notizie poco confortanti che fanno del Regno non più quell’Eldorado forte del suo status di nazione-isola, del potere della sterlina e dell’eredità coloniale. Un Paradiso meno appetibile di un tempo, che scoraggia migranti, giovani e lavoratori europei alla ricerca di un’occasione oltre la Manica.
London bridge is falling down? Non per adesso, ma per Londra le cose sono meno semplici di un tempo, vittima forse della sua stessa hybris.