In questi giorni così pregni di accordi e incontri al vertice, Usa, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito e Giappone hanno promosso l’iniziativa “Partner nel Pacifico blu” (PBP) volta ad una cooperazione efficace con le piccole nazioni insulari della regione in risposta alla spinta aggressiva della Cina. Del resto, la regione delle Isole del Pacifico ospita quasi un quinto della superficie terrestre e molte delle sue sfide più urgenti, dalla crisi climatica alla pandemia passando per la crescente pressione sull’ordine internazionale.

L’espansionismo cinese

Dopo che Pechino ha dato vita ad un ampio patto di cooperazione comune con dieci Stati del Pacifico, è diventata evidente l’estensione pianificata della sua influenza fra gli Stati insulari: negli ultimi anni, molti di loro hanno aderito alle nuove vie della seta, come Kiribati, Samoa, Figi, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea, Timor Est e le Isole Salomone. L’Oceania, tuttavia, mostra un carattere ondivago, stringendo accordi con Pechino e rifuggendone poco dopo.

Nei mesi scorsi era stato soprattutto l’avvicinamento delle Isole Salomone alla Cina, ad aver destato allarme e preoccupazione in Occidente, per via della stipula di un patto bilaterale di sicurezza. Quanto, tuttavia, questo potesse essere tra i desiderata della piccola nazione composta da una gragnola di isole è evidente dalle parole di Manasseh Sogavare, primo ministro delle isole Salomone, di fronte al Parlamento:  “Non abbiamo intenzione di farci coinvolgere in una lotta di potere a carattere geopolitico” e Honiara, la capitale del paese, non è disposta a “schierarsi”. Le regine dell’Oceania- Nuova Zelanda e Australia- non avevano accettato di buon grado una tale incursione geopolitica nel loro cortile di casa, e da subito si era cercato di correre ai ripari.

Come funzionerà il PBP

La questione del clima, connettività e trasporti, sicurezza e protezione marittima, salute, prosperità e istruzione sono tra i settori in cui il PBP cercherà di migliorare la cooperazione. Interessante notare che le consultazioni che hanno dato vita all’accordo hanno incluso la Francia e l’Unione Europea come osservatore.

Si tratterà di un quadro informale di cinque nazioni, con l’obiettivo di sostenere le isole del Pacifico e rafforzare i legami politici ed economici regionali per migliorare “prosperità, resilienza e sicurezza”. I membri dell’iniziativa hanno anche promesso di rafforzare i legami con il Forum delle Isole del Pacifico e di promuovere il regionalismo nell’area. I cinque paesi membri hanno sostenuto in una dichiarazione congiunta che il forum “rimane aperto a impegnarsi con altri partner”, aggiungendo che “in ogni momento, le Isole del Pacifico saranno condotte e guidate da noi”. Questa frase la dice lunga su che tipo di disputa si stia per aprire nel blu profondo di queste acque.

Dalla briefing room virtuale della Casa Bianca si leggono quali saranno i 3 obiettivi principali dell’accordo.

Il primo, fornire risultati per il Pacifico in modo più efficace ed efficiente. Insieme e individualmente, i cinque Paesi rafforzeranno i loro sforzi esistenti per sostenere le priorità dell’area, in linea con l’imminente Strategia 2050 del Forum delle Isole del Pacifico. Per fare ciò, si lavorerà mappando i progetti esistenti e pianificandone di nuovi; il secondo: sostenere il regionalismo del Pacifico. Il PBP creerà legami più stretti con i governi locali facilitando un impegno più forte e regolare con i cinque governi potenziando il regionalismo come pilastro vitale dell’architettura dell’accordo e dei rispettivi approcci alla regione; il terzo, ovvero espandere le opportunità di cooperazione tra il Pacifico e il mondo. Il PBP incoraggerà e faciliterà un maggiore impegno con il Pacifico da parte di qualsiasi altro partner che miri a lavorare in modo costruttivo e trasparente. Man mano che si sviluppa, il PBP rimarrà informale e aperto alla cooperazione con i principali forum internazionali.

Una strategia ben più complessa

A supporto del PBP vi è poi l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF), un’iniziativa di potenziamento del commercio nella regione con 13 paesi partner: Australia, Brunei, India, Indonesia, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Thailandia, Figi – avviata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati prima che il PBP fosse presentato negli scorsi giorni.

Il PBP assieme all’IPEF costituisce una strategia di coinvolgimento ambiziosa per l’amministrazione Biden in difficoltà, soprattutto se inquadrata da un punto di vista commerciale e della lotta al cambiamento climatico, che fanno da supporto fondamentale alla strategia di contenimento cinese. Lontano dal Pacifico, poi, il G7 ha svelato una strategia chiamata Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII), che mira a competere con la Belt and Road Initiative cinese impegnandosi a raccogliere 600 miliardi di dollari per finanziare iniziative di sviluppo a basso e medio reddito nazioni.

Nei mesi a venire è previsto un aumento della presenza occidentale-soprattutto americana-nell’area: dagli scambi diplomatici ai Peace Corps. L’idea è anche quella di riaprire una rappresentanza diplomatica presso le isole Salomone, che manca dal 1993.

Nel suo rapporto strategico del 2019, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti definì l’Indo-Pacifico la “single most consequential region for America’s future”. Un dato di fatto confermato, al di là degli stravolgimenti che il conflitto in Ucraina sta portando in Europa e nella NATO. Nel celebre rapporto le ragioni che spiegavano lo spostamento degli interessi americani nell’area si giustificava con il fatto che la regione la regione ospita lo stato più popoloso del mondo (la Cina), la democrazia più popolosa (l’India), la più grande nazione islamica (l’Indonesia) e comprende oltre la metà della popolazione terrestre.

Tra i 10 più grandi eserciti permanenti del mondo, 7 risiedono nell’Indo-Pacifico; e 6 paesi della regione possiedono armi nucleari. Nove dei 10 porti marittimi più trafficati del mondo si trovano nella regione e il 60% del commercio marittimo globale transita attraverso l’Asia, con circa un terzo del trasporto marittimo globale che passa solo attraverso il Mar Cinese Meridionale. Gli Stati Uniti hanno da tempo mantenuto un equilibrio di potere nella regione con il loro sistema “hub-and-spoke” in cui l’America è l’hub ei suoi alleati sono i raggi la cui sicurezza è garantita dalla potenza militare statunitense, lì proprio dove il Dragone sta cercando, da tempo, di fare esattamente la stessa cosa.





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