Il risultato delle ultime elezioni in Ungheria non dà spazio ad analisi particolarmente dubbiose: Orban si riconferma presidente con una larga maggioranza che rasenta il 50%. Un risultato in linea con le precedenti tornate che lo hanno visto vincitore, premiato da una affluenza di ben 8 punti percentuali maggiore rispetto al 2014. Orban avrà così 135 seggi sui 199 a disposizione nel parlamento del Paese, e potrà dunque fare affidamento su una maggioranza di oltre due terzi e quindi contare sulla possibilità di attuare le sue riforme senza forti opposizioni.
Al rilevante risultato del presidente rieletto per il terzo mandato consecutivo, si somma l’ottimo risultato di Jobbik, il partito della destra nazionalista e radicale, che ha raccolto il 19,7% dei voti. Jobbik, il Movimento per un’Ungheria migliore, si auto-posiziona ancora più a destra di Fidesz, il partito del presidente Orban, per aver sostenuto delle forti campagne contro la crisi migratoria che ha colpito l’Unione europea degli ultimi anni. Proprio durante il picco degli arrivi di centinaia di migliaia di rifugiati dal Medio Oriente e dall’Africa, il partito nazionalista aveva raggiunto oltre il 25% dei consensi, in corrispondenza con il periodo in cui Fidesz ha raggiunto il suo minimo dal 2010, scendendo sotto il 40%. Il partito di destra Jobbik non è nuovo alle consultazioni elettorali ungheresi, e anzi, nelle ultime tornate, ha consolidato la sua posizione, mantenendo il suo livello di consensi attorno al 20%. In Ungheria, infatti, le posizioni contro le politiche migratorie sono largamente diffuse, e il fatto che più di 2 ungheresi su 3 esprimano il loro gradimento per formazioni patriottico-nazionaliste dà una dimensione della questione. Nonostante il positivo esito della consultazione, Jobbik ha assimilato il risultato ad una sconfitta, determinando così la decisione del proprio leader, Gabor Vona, a dimettersi.
In passato, infatti, lo stesso Orban aveva additato le grandi democrazie liberali occidentali di predisporre dei piani di “invasione” dell’Europa da parte dei milioni di migranti esuli dalle zone di guerra dell’Africa e del Medio Oriente, e muoveva un attacco aperto al ruolo del finanziere George Soros (di origini ungheresi, ma malvisto in Ungheria) di finanziare le ONG locali dedite all’accoglienza dei migranti. Anche la vicinanza di Orban a Putin ha suscitato nei Paesi occidentali un ostracismo nei confronti della figura di Orban, ma tale comportamento del presidente ungherese si giustifica, anche e soprattutto, per la forte dipendenza energetica dell’Ungheria dal gas russo, che tocca punte del 71%: basti pensare che in Europa, solo la Polonia e l’Austria hanno livelli di dipendenza maggiori, oltre alla totalità di fornitura che Mosca rappresenta per l’alleato Bielorussia.
Questo risultato parla da sé, e di come le posizioni conservatrici di un Paese come l’Ungheria siano forti e quasi inamovibili. Sebbene infatti Budapest sia inserita nel contesto Nato dal 1999, ed abbia appoggiato le missioni in Kosovo ed in Afghanistan, e sia membro dell’Unione Europea dal 2004, l’Ungheria ha assunto da circa 10 anni delle posizioni fortemente contrarie alle politiche dell’accoglienza dettate da Bruxelles, e si oppone ancora in maniera veemente alle direttrici di integrazione e ad un immediato ingresso del Paese nell’Eurozona.
A tal proposito, proprio Orban fece riferimento al fatto che, finché il reddito pro capite dei cittadini ungheresi non fosse arrivato ad un livello di almeno il 90% del reddito medio dei Paesi della zona Euro, Budapest non avrebbe garantito l’adesione alla moneta unica. Con Orban, infatti, l’Ungheria si è posta quale Paese guida del gruppo di Visegrad, che ancora oggi propongono delle forti pressioni nazionaliste e contrarie ad una smodata integrazione e accoglienza dei migranti.
Da un punto di vista economico, l’Ungheria è un Paese in costante crescita, e la sua autonomia in materia di politica monetaria ha consentito al Paese di ridurre l’impatto della crisi globale del 2007-10 con risultati incoraggianti, passando da un livello di disoccupazione del 12% al 3,8% in pochi anni, un reddito pro capite quasi raddoppiato da 15mila a 27mila dollari e una crescita annuale del PIL che si attesta al 3,2%, contro, tanto per esemplificare, l’1,5% dell’Italia.
La forza delle politiche di Orban risiede nel forte livello di aiuto statale alle categorie più deboli, sulle quali è intervenuto con l’aumento delle pensioni minime, il taglio dei costi per il consumo energetico e le politiche di incentivo alla natalità, con il taglio delle imposte per le famiglie più numerose. Ciò determina evidentemente un incremento della spesa pubblica, che quindi riduce l’impatto sulla crescita del reddito nazionale, che registra infatti per Budapest un aumento leggermente inferiore proprio rispetto agli altri Paesi di Visegrad, ma che comunque mantiene i livelli di rapporto debito/PIL al 73%, dunque vicini ai parametri di Maastricht.