La decisione degli Stati Uniti di ritirare le proprie truppe dal nord della Siria sta sollevando preoccupazioni in Israele: alcuni analisti di Tel Aviv stanno dipingendo un quadro drammatico che vede una Russia sempre più invadente e l’Iran pronto a colpire lo Stato ebraico.
Israele, grazie al ritiro americano perfettamente in linea con la politica “America first” che vede gli Stati Uniti abbandonare alcuni fronti secondari pur mantenendo il controllo dei clausewitziani Schwerpunkt, si sente sola: c’è infatti chi si sta chiedendo cosa succederà la prossima volta che Tel Aviv dovrà avere a che fare con l’attività di espansione economica russa, o, ancora più preoccupante, come sarà gestita la prossima crisi con l’Iran, che rischia di avere un unico arbitro internazionale, ovvero Mosca.
Israele in un certo senso si sente anche “tradita” dalla politica di Trump: quello che viene percepito come un abbandono del Medio Oriente – che in realtà abbandono non è – pone la politica americana, vista da Tel Aviv, nel solco di quella dei democratici Usa, che non sono mai stati propriamente innamorati dello Stato ebraico. Durante i mandati del presidente Obama, i rapporti tra Washington e Tel Aviv non sono stati idilliaci proprio per la questione iraniana: la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, il Jcpoa ora praticamente defunto, è stata fortemente contrastata da Israele in quanto non ha eliminato la minaccia atomica degli Ayatollah.
Una questione, quella iraniana, che ritorna prepotentemente al centro delle preoccupazioni, e come vedremo anche per la questione nucleare, ma Israele teme anche che senza gli Stati Uniti la Russia occupi un vuoto geopolitico diventando un attore imprescindibile per la politica del Medio Oriente.
Chi ha paura della Russia?
Come riportato da Haaretz, uno dei timori della presenza di Mosca come attore attivo e fondamentale della politica mediorientale è che diventi difficile regolare le attività di espansione economica e commerciale tra Israele e la Russia nella prospettiva dei rischi che riguardano la sicurezza nazionale che potrebbero derivarne.
Ritorna, cioè, a venire agitato lo spettro degli “hacker russi” che, se difficilmente avrebbero interesse (o le capacità) di pilotare le elezioni in Israele, potrebbero avere accesso, attraverso la penetrazione economica, a tecnologia civile (e militare) coperta da segreto. Un’attività di spionaggio industriale di Stato che è pratica comune non solo in Russia, ma ovunque nel mondo, Stati Uniti compresi.
Una fonte anonima, ma appartenente all’ambiente militare israeliano, ha infatti esplicitamente affermato ad Haaretz che “i russi sono coinvolti in attività di sovversione politica ovunque nel mondo. La vedono come legittima e Israele non fa eccezione. Come i cinesi, i russi vogliono dimostrare che il sistema democratico non funziona da nessuna parte… preferiscono venire a patti con leader e sistemi gerarchici senza la presenza di istituzioni che bilanciano e limitano il potere. Così sfidano le strutture democratiche ovunque nel mondo, interferiscono nelle elezioni e creano pressione economica attraverso gli investimenti delle oligarchie che sono funzionali al Cremlino”.
Un’analisi molto più che pungente, un vero atto d’accusa verso Mosca, ma che sembra più dettato dal timore per il disimpegno americano che da un’analisi oggettiva e ragionata della situazione. Come accennato l’attività di pirateria elettronica, sia essa rivolta all’acquisizione di documenti coperti da segreto o al tentativo di indirizzamento politico della masse, la cui reale efficacia è ancora tutta da provare, è un’attività diffusa, effettuata da tutti gli attori statuali piccoli e grandi: dall’Iran, alla Corea del Nord, alla Cina, gli Stati Uniti e, ovviamente, la Russia. Fa parte di quella che viene definita “guerra ibrida” ed è un campo di battaglia che sta assumendo sempre più importanza.
Non si capisce, per il caso israeliano, perché Mosca dovrebbe “attaccare” una nazione di fatto amica, sebbene nell’orbita americana, e soprattutto proprio ora che Washington ha deciso di ridimensionare la propria presenza in Medio Oriente – sebbene le truppe presenti in Siria siano state spostate in Iraq, quindi di fatto il bilancio totale resta invariato. L’interesse di Mosca, come affermato con preoccupazione dal media israeliano, è quello di ampliare il proprio raggio commerciale, soprattutto nel campo degli idrocarburi e dell’energia nucleare, come sta facendo altrove: una tattica di soft power ben nota e anch’essa utilizzata da tutte le nazioni con ambizioni di potenze globali o regionali.
La paura della Russia parte anche dalla considerazione del fatto che gli interessi di Mosca in Iran sono più forti di quelli in Israele. “In caso di uno scontro staranno dalla parte della Siria e dell’Iran, perché ultimamente i loro interessi sono radicati in quei Paesi e riguardano l’energia e la vendita di armamenti” sostiene Uzi Harad, ex presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano. Harad dovrebbe però considerare anche che proprio la Russia non si è mai opposta ai raid israeliani in Siria che hanno colpito proprio le posizioni delle milizie iraniane che stanno combattendo l’Is, e che i rapporti con l’Iran sono, in realtà, ben lungi dall’essere saldi: Mosca e Teheran, nonostante la convergenza su alcuni temi, come la lotta all’integralismo religioso di matrice wahabita, sono sempre stati caratterizzati da una certa freddezza reciproca.
Harad dovrebbe considerare con più preoccupazione i rapporti che Mosca sta tessendo con Riad, proprio nell’ottica del contrasto al terrorismo, ma essendo l’Arabia Saudita un avversario dell’Iran, automaticamente scatta il meccanismo dell’interesse strategico che vede nel nemico del mio nemico un mio amico, per cui si preferisce evitare di parlare delle connessioni dimostrate e dimostrabili tra l’Is, la Fratellanza Islamica e le petromonarchie del Golfo.
L’accusa di voler rubare la tecnologia israeliana, che, secondo Haaretz, sarebbe superiore rispetto a quella russa, ci sembra del tutto fantasiosa.
Hanno invece ragione ad essere preoccupati per gli eventuali sviluppi futuri della strategia di Washington, che potrebbe decidere di “chiudere i rubinetti” dei dollari e defalcare dal bilancio i 4 miliardi di dollari che annualmente vengono devoluti a Tel Aviv per la propria industria della Difesa.
Il nemico numero uno è sempre l’Iran
Gli israeliani lo ammettono: prima o poi si arriverà allo scontro con l’Iran. Gli sforzi di Teheran tesi a rifornire di armi Hezbollah e la penetrazione attiva di milizie iraniane in Iraq e in Siria non sono diminuiti nonostante i raid aerei che Israele sta effettuando su vasta scala in tutto quel settore del Medio Oriente.
Il prossimo round di scontri tra le due parti è imminente, riporta ancora Haaretz. Questo potrebbe essere il risultato di un’azione preventiva di Israele contro un attacco di rappresaglia iraniano o un raid deliberato della Idf contro la crescente presenza iraniana nella regione o i rifornimenti di armi a Hezbollah. Azioni che, come detto da Teheran, avranno un’immediata risposta militare da parte dell’Iran.
L’innalzarsi della tensione nel nord dello Stato ebraico potrebbe degenerare in un conflitto nel sud. Secondo l’intelligence militare israeliana, sebbene Hamas si stia adoperando per mantenere la stabilità e sia preoccupata per un’eventuale guerra, i jihadisti agiscono come un organismo indipendente da certe dinamiche non essendo legati né ad Hamas né (ovviamente) ad Hezbollah, e potrebbero attivarsi in un conflitto nella Striscia di Gaza indipendentemente dalle considerazioni che riguardano la reazione israeliana che molto probabilmente porterebbe a danni ingentissimi alla popolazione civile.
Una considerazione estremamente precisa e verosimile, che però dovrebbe far riflettere su quelli che sono i veri burattinai di questa instabilità nel settore sud: il terrorismo wahabita è finanziato coi petrodollari delle monarchie del Golfo. Il nemico numero uno, però, resta sempre l’Iran.
Pertanto anche il fatto che gli Stati Uniti non nascondano di voler tornare al tavolo delle trattative sul nucleare con Teheran, per raggiungere un nuovo accordo dopo l’uscita unilaterale dal Jcpoa, è fonte di preoccupazione per Tel Aviv. Gli israeliani sono coscienti che anche gli Ayatollah vogliano riprendere le negoziazioni, sebbene da posizioni di forza, cercando nel contempo di alzare la posta in gioco con piccole violazioni dell’accordo precedente, che comunque è stato violato dagli Stati Uniti con l’elevazioni di nuove sanzioni internazionali che, secondo gli analisti israeliani, non sono efficaci nel piegare l’economia iraniana.
La posizione di Israele sembra quindi essere intransigente: con l’Iran non deve esserci nessun tipo di accordo riguardo il nucleare, Teheran non deve possedere la tecnologia atomica nemmeno per scopi civili. Tel Aviv deve mantenere il predominio nucleare del Medio Oriente e non può permettersi che nessun altra potenza regionale possa dotarsi di armamento atomico. Una politica che rasenta la fobia ma che è in un certo senso giustificata dai proclami che la teocrazia ha fatto in passato sullo Stato ebraico.
Anche se la retorica di Teheran è recentemente cambiata in questo senso rispetto agli scorsi anni, Tel Aviv resta con la guardia alta, anzi altissima, in considerazione della sua recente storia: le guerre che ha combattuto in 70 anni di esistenza hanno plasmato non solo la politica ma il “sentire” di un intero popolo.
Ecco perché la penetrazione iraniana in quel settore del Medio Oriente viene vista come una minaccia esistenziale, ecco perché Israele sta compiendo sempre più azioni di contrasto a tale minaccia e non si fida di Teheran, ma dovrebbe comunque considerare, stante il cambio di equilibri, che la Russia rappresenta un attore molto meno ostile di quanto la retorica di una certa stampa locale voglia far credere, e che potrebbe essere una risorsa proprio in chiave di limitazione dell’espansionismo iraniano.