Nel corso dell’ultimo mese, il tema del nucleare iraniano è tornato a preoccupare la comunità internazionale in seguito al rilevamento di nuovi livelli di arricchimento dell’uranio nei laboratori della Repubblica Islamica. Con l’accordo del 2015 sconfessato dall’ex presidente americano Donald Trump e mai più ripristinato, la collisione che si profila tra l’Iran e l’Occidente ricalca alla perfezione la dinamica del “gioco del pollo” delle relazioni internazionali, ma a ben vedere la situazione interna attuale apre nuove possibilità.
Teheran sempre più vicina all’arma nucleare
Già a fine febbraio scorso, gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) avevano individuato un quantitativo non specificato di uranio arricchito all’84%, il livello più alto mai trovato in Iran e di poco minore a quello necessario per realizzare un’arma nucleare (ovvero il 90%). Pochi giorni dopo la dichiarazione, l’Iran ha riconosciuto le accuse rivolte dall’agenzia tramite un canale media affiliato alle più alte sfere della teocrazia. Meno di un mese dopo si è pronunciato sulla questione anche il generale Milley, capo di stato maggiore degli Stati Uniti, dichiarando che “l’Iran potrebbe produrre materiale fissile sufficiente per una bomba in meno di due settimane, e un’arma nucleare entro alcuni mesi“.
Questi avvertimenti ravvicinati hanno ricordato nuovamente all’Occidente l’urgenza di affrontare il programma nucleare di Teheran, che era stato contenuto dall’accordo sul nucleare raggiunto a Vienna nel 2015 nel corso della presidenza Obama – il Piano di azione congiunto, Jcpoa – e dal quale gli Stati Uniti sono stati ritirati unilateralmente nel 2018 da Donald Trump per imporre nuove sanzioni a centinaia di aziende iraniane. In risposta all’iniziativa americana, l’Iran aveva a sua volta violato i termini dell’accordo, considerato a quel punto nullo, ricostituendo scorte di uranio e centrifughe ultra tecnologiche per accelerare la produzione e l’arricchimento di materiale fissile.
Svariati tentativi di resuscitare l’accordo sono stati promossi dai governi occidentali: in particolare l’Unione Europea, che ritiene che lo Jcpoa rimanga “l’unica via” per trattare il programma nucleare iraniano, ma anche gli Stati Uniti stessi con l’amministrazione Biden (la riapertura dei negoziati sul tema è stato un punto forte della campagna elettorale dell’attuale presidente) che pur dichiarando di aver de-priorizzato il dossier si rifiutano di dichiarare ufficialmente estinto l’accordo. I tentativi dell’Occidente non hanno tuttavia dato frutti a causa delle richieste massimaliste del governo di Ebrahim Raisi: prima tra tutte, l’immediata revoca di tutte le sanzioni, ma anche la richiesta di rimuovere il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica dalla lista americana delle organizzazioni terroristiche e la garanzia che nessun altro presidente americano seguirà i passi di Trump uscendo dal trattato.
Pur in assenza di un accordo, negli ultimi anni il programma nucleare di Teheran ha subito un’accelerazione notevole, di cui i mullah non fanno poi gran segreto. Asia Times riporta che recentemente, un media affiliato alle guardie della rivoluzione ha dichiarato che “per motivi razionali, l’Iran non può chiudere le porte ai metodi scientifici per dotarsi di una bomba”.
Il gioco del pollo
Proprio la razionalità ha un ruolo fondamentale nel cosiddetto “gioco del pollo”, spesso utilizzato per inquadrare questioni nucleari. Fa parte della più ampia “teoria dei giochi“, utilizzata nell’ambito della politica internazionale per interpretare – e possibilmente prevedere – i comportamenti degli attori coinvolti prendendo in considerazione le loro preferenze, i vincoli strategici e la necessità di cooperare o competere tra loro. In particolare, il gioco del pollo prevede una competizione tra due giocatori antagonisti; per vincere devono indurre la controparte ad adottare un certo comportamento senza fare altrettanto.
L’esempio più utilizzato per dimostrare la dinamica è quello di una gara di coraggio tra due ragazzi che guidano la macchina sulla stessa strada, l’uno contro l’altro, e il primo che sterza perde. L’unico modo per vincere la gara è indurre l’altro a sterzare esercitando una minaccia credibile, ovvero fingersi irrazionali e disposti a morire nell’incidente pur di vincere. Ovviamente, se l’avversario non crede al bluff e continua a guidare dritto, entrambi i guidatori moriranno; l’unica speranza di vittoria sta proprio nel convincere l’altro della propria sicurezza, spaventandolo (di qui il pollo). La credibilità della minaccia è quindi fondamentale, e un modo per aumentarla è limitare la propria autonomia decisionale. Se uno dei due giocatori quindi blocca lo sterzo e lo fa sapere all’altro, questo potrà razionalmente scegliere di sterzare e perdere la gara (che è comunque meglio di morire). Chi ha bloccato lo sterzo a quel punto non potrà più scegliere se girare, e dovrà confidare nella razionalità dell’altro per non morire.
Il gioco del pollo è quindi riconducibile alla politica nucleare utilizzata dai Paesi che hanno a disposizione armi che potrebbero potenzialmente distruggere l’avversario. Lanciarsi dritti l’uno contro l’altro significa sviluppare il proprio programma nucleare e minacciare di utilizzarlo; bloccare lo sterzo e comunicarlo significa sospendere l’arricchimento e dare accesso ad ispettori internazionali per certificare la situazione, avvantaggiando però l’avversario, che potrebbe attaccare e distruggere i laboratori e compromettere la sicurezza del Paese. Riconducendo questa logica alla realtà, va però tenuto in conto che gli attori non agiscono in maniera perfettamente razionale e che normalmente in situazioni che comportano questo tipo di rischi i negoziati tendono a produrre compromessi.
Guardare alla storia per prevedere le mosse dell’Iran
Fin dalla rivoluzione del 1979, nei processi decisionali su questioni vitali, la leadership iraniana ha dimostrato di avere un approccio lento e cauto, seppur risoluto, anche a causa delle molteplici minacce interne ed esterne che ha dovuto affrontare in queste quattro decadi (la guerra con l’Iraq, le sanzioni internazionali). Già la decisione di sedersi al tavolo delle trattative con gli americani e altre potenze occidentali per siglare un accordo sul nucleare ha richiesto agli ayatollah dieci anni di attenta riflessione. Fino ad oggi, la lentezza del processo decisionale e la leadership restia a sviluppare un’arma nucleare “di nascosto” o completamente al di fuori di un accordo hanno giocato un ruolo importante nell’impedire la militarizzazione del programma nucleare.
Questi stessi limiti potrebbero aprire nuove opportunità per le potenze occidentali ora che si sovrappongono alle proteste interne scatenate dalla morte di Mahsa Amini sotto custodia della Polizia morale di Teheran nel 2022, ma anche alla rabbia del blocco occidentale per l’invio di droni in Russia per la guerra in Ucraina. Le insurrezioni interne represse duramente e le pressioni esterne hanno accelerato il declino della legittimità del regime nel Paese, e in particolare hanno causato l’imposizione di nuove sanzioni da parte della comunità internazionale.
Nuovi scenari richiedono nuovi negoziati
Se i leader dell’Occidente prendessero atto del fatto che un revival dell’accordo del 2015 non godrebbe mai dei livelli di fiducia di quell’epoca (in cui aveva rappresentato una svolta epocale di apertura e distensione, oggi non più verosimile) e approfondissero invece il supporto economico e diplomatico alla popolazione civile iraniana, questo costituirebbe un chiaro segnale per Raisi: il regime degli ayatollah è minacciato non solo militarmente dall’esterno, ma anche dall’interno.
Come sottolinea Asia Times, a più riprese gli ufficiali iraniani hanno sottolineato che l’accordo sul nucleare non è carta straccia e che i negoziati proseguono (nonostante gli elementi più radicali chiudano totalmente al compromesso con l’Occidente): questo significa che la leadership iraniana non è disposta ad assumersi le responsabilità del ritiro dalle trattative, poiché questo danneggerebbe ulteriormente la vita economica del Paese, inasprendo di conseguenza l’opposizione interna.
L’occasione storica è unica: più si protraggono le contestazioni e l’instabilità del regime, più è probabile che questo sia disposto a prendere una decisione sul programma nucleare. Ma non per forza nella direzione di un nuovo accordo, perché i partecipanti a questo gioco sono umani, non perfettamente razionali.