Per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan la Siria è stata e resta una partita cruciale. Il leader turco aveva ottimi rapporti con il siriano Bashar al Assad. Poi, dopo le prime avvisaglie delle rivolte, le cose sono drasticamente cambiate: Erdogan non ha solo voltato le spalle al leader di Damasco, ma ha anche apertamente sfruttato la guerra per capitalizzare la sua strategia di espansione della propria influenza sulla regione. Una scelta che si è concretizzata sia sul piano territoriale, a nord, con diverse operazioni militari che hanno di fatto ampliato l’autorità su turca su diverse aree a sud del confine turco in larga parte popolate da curdi; sul piano diplomatico, specialmente attraverso la svolta di condominio e convivenza con la Russia e l’Iran cementata nella piattaforma di Astana; e infine sul piano della gestione del flussi migratori dalla Siria, elemento fondamentale sia sul piano interno e regionale, sia sotto quello esterno nei riguardi dell’Europa.
Tutto questo si è realizzato nonostante (o forse proprio attraverso) i cambiamenti strategici che hanno caratterizzato la politica del Sultano degli ultimi anni. Nei diversi cambi di rotta di Ankara, specialmente nei rapporti con i rivali e partner regionali e internazionali, l’impressione è infatti che la Siria non sia mai stata persa di vista. La Turchia ha cambiato metodo, idee o anche le stesse partnership, ma non ha mai abdicato al suo ruolo di potenza all’interno del difficile e complesso teatro siriano. E questo lo si vede anche oggi, anche quando tutto il mondo è certamente più concentrato sull’Ucraina, la Russia o il fronte indo-pacifico, e sempre meno attento alle tragedie che hanno funestato il Medio Oriente. Mentre tutti guardavano a Erdogan come un leader focalizzato sullo scacchiere del Mar Nero, le trattative tra Kiev e Mosca e il fragile accordo per il grano, l’attentato di Istanbul ha di nuovo cambiato la narrazione del presidente turco.
Nelle ultime ore, Erdogan ha annunciato che “presto, se Dio vuole” inizierà una nuova operazione terrestre in Siria. Queste dichiarazioni giungono a poca distanza da una fiammata di attacchi con droni e aerei nei confronti di quelle che per Ankara sono postazioni terroristiche in territorio siriano legate ai curdi del Pkk e alle milizie Ypg. “Se Dio vuole li elimineremo presto con i nostri soldati, i nostri cannoni e i nostri carri armati”, ha continuato il presidente turco. Nel frattempo, Agenzia Nova riporta che l’Osservatorio siriano dei diritti umani – ben noto durante la guerra – ha raccontato che l’artiglieria turca ha bombardato il villaggio di Qarmouj e Jishan, non lontano da Kobane, mentre gli aerei militari di Ankara avrebbero colpito le postazioni delle Sdf, la coalizione arabo-curda sostenuta da Washington, nei pressi di Al Hasakah.
I tre assist globali per Erdogan
Per Erdogan, si tratta del completamente di un’operazione iniziata ormai da diversi anni e che è stata frenata dal fatto che le superpotenze coinvolte nel conflitto in particolare Russia e Stati Uniti, hanno cercato di frenare le ambizioni del Sultano. Washington come vertice della Nato e Mosca come potenza fondamentale dopo l’intervento per salvare Assad e desiderosa di evitare un nuovo fronte che mettesse in pericolo anche la stabilità dell’influenza dell’Iran, hanno evitato che la Turchia mettesse in piedi una campagna militare che può infrangere questo equilibrio. In questo momento, però, Ankara sa di avere sostanzialmente mano libera, e di poterlo fare per almeno tre ragioni. Gli Stati Uniti stanno rafforzando il fronte orientale della Nato e quello dell’Indo-Pacifico, distraendosi dal Medio Oriente. La Russia ha invaso l’Ucraina e Vladimir Putin non può certo concentrare eventuali sforzi diplomatici o bellici per gestire il riottoso partner turco. Inoltre, Erdogan ha da tempo fatto capire che nel do ut des per Mar Nero e Ucraina è fondamentale un qualche via libera in Siria. L’Iran è in preda alle rivolte interne e fin troppo debole sul piano economico e della sua rete internazionale. Israele sta riallacciando i rapporti con la Turchia e, anche per ricostruire un Mediterraneo orientale stabile, non sembra intenzionato a riaccendere un fronte diplomatico con Ankara.

Le potenze europee, invece, appaiono ormai completamente distanti dal disastro siriano. Infine, il veto minacciato dalla Turchia all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato proprio per il loro sostegno ai curdi è un’arma che resta in mano a Erdogan: ancora più importante dopo l’attentato che ha sconvolto il centro di Istanbul. In tutto questo, le elezioni nel 2023 e la crisi economica che attanaglia la Turchia rappresentano anche motivi di politica interna per sostenere un impegno militare nella regione, e questo ha ancora più senso proprio dopo quella tragedia.
L’obiettivo strategico di Erdogan, al netto del profilo politico, sembra essere di nuovo quello di rafforzare quel cuscinetto terrestre di circa trenta chilometri tra la Turchia e la Siria fino a raggiungere la frontiera dell’Iraq. I piani di attacco continuano ad avere al centro Tal Rifat, Manbij e Kobane, ma in molti ritengono possibile che le operazioni, quantomeno quelle aeree, continuino anche nel Kurdistan iracheno. Per i turchi è essenziale non solo rompere qualsiasi legame terrestre tra le aree controllate dai curdi, ma anche provare ad ampliare il controllo su quelle regioni. Kobane e Manbij così come Afrin e sono da sempre nel mirino del Sultano, e non c’è solo il tentativo di minare definitivamente le milizie curdo-siriane. In diverse regioni si può parlare ormai di gestione di fatto da parte di Ankara, con territori dell’estremo nord della Siria sostanzialmente turchi. In tutto questo, rimane il grande nodo di Idlib: sacca di miliziani, jihadisti, rifugiati e caos dove la Turchia può avere un’autorità sempre più pervasiva. Il 2022, in attesa delle fondamentali elezioni del 2023, può essere un anno fondamentale anche per il destino di questi luoghi. Erdogan sa di avere in mano una finestra di opportunità che non può perdere: in questo momento può realizzare un piano che va avanti da anni e che unirebbe il suo nuovo corso con il passato della “profondità strategica”.
Del resto, oggi lo stesso Assad, che non può certo imporre la propria forza contro l’esercito turco e contro le volontà russe, potrebbe in realtà accettare un’avanzata che colpisca i nemici di Damasco sostenuti dalla coalizione internazionale: quelli che avevano combattuto per l’Occidente contro l’Isis ma che rappresentano una spina nel fianco per il completamento della sua riconquista della Siria. Come spiegava su Limes Lorenzo Trombetta, Putin aveva da tempo chiesto un riavvicinamento tra i due leader mediorientali. E forse questa avanzata terrestre confermerà la complessità dei rapporti di quella regione, dove tutto può apparire in un modo ed essere qualcos’altro.