Il caso Huawei conosce un nuovo inasprimento, e tra Stati Uniti e Cina la “guerra tecnologica”, proiezione di una sfida per la conquista della supremazia nel campo dell’innovazione di frontiera, dal 5G all’intelligenza artificiale, si infiamma ulteriormente. A tornare dipartimento al centro della scena è la vicepresidente Meng Wanzhou, attualmente in libertà vigilata in Canada dopo l’arresto di fine 2018, finita ufficialmente sul banco degli imputati assieme al colosso cinese delle telecomunicazioni, la sua controllata americana.
Nella giornata del 28 gennaio, infatti, Meng è stata ufficialmente incriminata per spionaggio industriale e violazione delle sanzioni contro l’Iran dal Dipartimento della Giustizia e potrebbe presto affrontare una richiesta di estradizione che, secondo fonti canadesi, sarebbe già stata ufficialmente richiesta da Washington a Ottawa.
Certamente, come facevamo notare, può causare qualche grattacapo pensare che la dirigente di una società di diritto cinese sia stata arrestata in Canada su iniziativa degli Stati Uniti per presunti reati finanziari coinvolgenti una nazione terza (l’Iran) rivale di Washington e inerenti alla violazione comminate non dalla comunità internazionale ma dai soli apparati di Washington. Ma il caso Iran ha fornito agli Stati Uniti la sponda per andare oltre e dichiarare la guerra totale a Huawei.
Come fa notare Repubblica, “sono circa due dozzine i capi d’accusa depositati dalle autorità americane, dalla frode all’ostacolo alla giustizia, ma in sostanza riconducibili a due fattispecie. La prima è la violazione delle sanzioni contro l’Iran: attraverso una controllata chiamata Skycom, con cui avrebbe simulato di non avere legami, Huawei sarebbe riuscita a fare affari con il regime sotto embargo, operando in dollari e vendendo oltre ai suoi prodotti anche componenti prodotte negli Stati Uniti”. Nel corso del 2013 Meng avrebbe inoltre avuto contatti con i partner bancari e finanziari della sua azienda per tranquillizzarli, sostenendo il pieno rispetto delle leggi e negando che la società fantoccio – nella quale occupava una poltrona del consiglio di amministrazione – fosse stata creata per schermare le sanzioni, trincerandosi su questa posizione anche nell’anno successivo, precedente all’accordo Washington-Teheran. Secondo le autorità si tratterebbe di false dichiarazioni allo scopo di convincere gli interlocutori a proseguire il proprio rapporto d’affari con Huawei.
La seconda accusa è “di aver cercato di rubare tra il 2012 e il 2013 al cliente americano T-Mobile una tecnologia per testare il funzionamento dei cellulari. In entrambi i casi “quello che le autorità Usa ritengono di poter dimostrare è che si trattasse di operazioni progettate e coordinate dai vertici aziendali, una “pistola fumante” che proverebbe come Huawei agisca sistematicamente violando la legge e quindi costituisca una minaccia alla sicurezza nazionale”.
Huawei ha preferito, sinora, tenere una posizione moderata, negando “che essa stessa o la sua controllata o affiliata abbiano commesso alcuna delle supposte violazioni della legge statunitense riportate in ciascuna delle accuse, non è a conoscenza di alcuna violazione da parte della signora Meng”, e ritenendo “che i tribunali statunitensi alla fine giungeranno alla stessa conclusione”. Una formula neutra dietro cui si cela, in realtà, l’ira di Pechino, già manifestatasi nei confronti del Canada con la rappresaglia della condanna a morte per narcotraffico del cittadino canadese Robert Lloyd Schellenberg che ha spinto Justin Trudeau a rimuovere dall’incarico l’ambasciatore nell’Impero di Mezzo per il suo rifiuto di cavalcare fino in fondo la linea del governo.
Nel caso degli Stati Uniti, la Cina è pronta a reagire in maniera asimmetrica su un percorso già tracciato: spingere le sue aziende tecnologiche a boicottare l’ultimo Consumer Eletronic Show (Ces), il più importante salone dell’elettronica di consumo al mondo, tenutosi a Las Vegas dall’8 all’11 gennaio, riducendo di un quarto la loro presenza e facendo intendere che un loro ritiro dal mercato statunitense, che provocherebbe contraccolpi pesanti nel Paese, non è da escludersi. I nervi tesi del conflitto scatenato da Huawei investono le relazioni economiche bilaterali: c’è a questo punto da chiedersi se un vero compromesso su una questione tanto cruciale per la sicurezza nazionale di Cina e Stati Uniti possa veramente trovare una soluzione realistica. Ma l’orizzonte sembra farsi più cupo giorno dopo giorno.