Il rapporto tra Cina e Stati Uniti è un cantiere aperto. Il viaggio di Antony Blinken in Cina, l’incontro con Xi Jinping e la promessa di lavorare per un nuovo vertice tra il presidente cinese e Joe Biden hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a mezzo mondo. Washington e Pechino hanno ripreso a parlarsi. Un buon segnale per gli equilibri globali, ma una rondine non può ancora fare primavera. E infatti nei corridoi del Congresso i falchi anti cinesi sono in piena attività.

Accanto all’ormai famoso comitato sulle attività del Partito comunista cinese presieduto dal super falco repubblicano Mike Gallegher è nata una nuova task force. Una squadra incaricata di monitorare la crescente influenza della Repubblica popolare nel Pacifico Meridionale. O meglio nel Pacifico che ancora oggi Washington considera il proprio cortile di casa.

Questa nuova formazione, creata dal comitato della Camera per le risorse naturali, ha compiti molto “politici” e strategici e concentra la sua azione su attori che a molti possono sembrare semplici atolli per vacanze da sogno, ma che per gli Stati Uniti sono il fulcro di tutta la strategia di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico.

La genesi di questa task force risiede in un briefing finito sul tavolo del comitato all’inizio dell’anno, briefing che lanciava l’ennesimo allarme sulle influenze cinesi. Come hanno spiegato Bruce Westerman e Raúl M. Grijalva i due deputati a capo del team, “abbiamo deciso di creare questa task force per concentrarci sulla sovranità americana e sull’aggressione cinese nell’Indo-Pacifico”. Il team di lavoro, hanno aggiunto i due, aiuterà a sviluppare policy che rinforzino la proiezione americana in un lembo specifico del Pacifico. Per queste ragioni, ha scritto il sito di informazione neozelandese Rnz i lavori saranno serrati e verteranno su esigenze specifiche degli Stati coinvolti.

Mappa di Alberto Bellotto

L’argine americano nel Pacifico

La task force si concentrerà, infatti, su Guam, le Samoa Americane e le Marianne Settentrionali, tutti territori americani, ma anche su altri tre Paesi: Palau, Micronesia e Isole Marshall. In particolare quest’ultimi da anni hanno un legame particolare con Washington, legame che si sintetizza nel COFA, Compacts of Free Association. Si tratta di un accordo a scadenza (che Palau, Micronesia hanno rinnovato a fine maggio) che permette alle forze armate americane di mantenere un accesso quasi esclusivo alle acque territoriali dei Paesi, per una superficie navigabile che si avvicina all’estensione degli Stati Uniti continentali.

Gli accordi COFA, ha notato l’analista della Rand corporation Derek Grossman, di fatto forniscono alle navi della marina americana “un’autostrada di protezione di potenza” verso alcuni dei punti più caldi della regione: lo Stretto di Taiwan, il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale e la Penisola di Corea.

Il cuore della strategia americana

Per i falchi anti cinesi Pechino ha messo in campo una strategia che mira a dominare le nazioni insulari della regione, come nel caso dell’accordo con le Isole Salomone, con lo scopo di proiettare la propria potenza in profondità nel Pacifico. Che quel lembo di mare sia strategico per gli Stati Uniti lo confermano le stesse parole di Westerman: “Le mosse di Pechino sono una minaccia per la nostra influenza e per i nostri interessi nella regione”.

Amata Radewagen, delegato per le Samoa Americane e co-presidente della task force, ha avuto parole ancora più dure di quelle di Westerman: “Il Partito Comunista Cinese ha decimato vaste areee de Mar Cinese Meridionale e punta a devastare il Pacifico. La flotta da pesca d’altura sovvenzionata da Pechino distrugge gli stock ittici e lo fa da troppo tempo”.

Poco meno di un anno fa la firma dell’accordo tra la Cina e le Isole Salomone ha portato questa cerniera tra superpotenze al centro del dibattito geopolitico. La concessione di porti per visite di routine a due passi dai “puntelli” americani hanno creato non pochi grattacapi dalle parti di Washington. La presenza di flotte cinesi in quei settori del grande oceano è problematica per almeno due motivi: il primo è legato all’avvicinamento di Pechino al territorio americano come Guam e le Hawaii (i cinesi stanno infatti trattando la possibile costruzione di un’aeroporto tra gli atolli di Kiribati, una nazione pacifica a meno di 2000km da Honolulu, cioè a tiro dei bombardieri); il secondo riguarda proprio la sfida sulla proiezione americana nell’area.

Mappa di Alberto Bellotto

I puntelli di Washington

Per tutte queste ragioni Washington è corsa ai ripari, e la nuova task force rappresenta solo la punta dell’iceberg. Poche settimane fa, infatti, gli americani hanno siglato due importanti intese con uno degli attori chiavi dell’area, Papua Nuova Guinea. Una mossa con il chiaro obiettivo di battere la Cina per tempo proprio nel confronto per un punto di approdo a Port Moresby. Nel frattempo ha continuato a tessere relazioni. È il caso di Bill Russo, funzionario del Bureau of Global Public Affairs, organo del dipartimento di Stato Usa, che è volato nelle varie nazioni del Pacifico per spiegare le policy americane. Lo stesso Russo ha sottolineato come sia intenzione dell’amministrazione Biden chiedere al Congresso stanziamenti da quasi 8 miliardi di aiuti per tutti i Paesi dell’area. Perchè questa barriera regga l’urto è necessario, però, che gli Usa mettano al sicuro la partnership con Micronesia e Palau, in particolare con la costruzione di basi militari nei loro territori. Non solo. Palau viene considerata sempre più strategica, come uno snodo da blindare nel caso di indebolimento di Guam. E infatti Washington prevede di realizzare tra le isole dell’ex colonia Usa un sistema radar per allerte rapide.

L’altro grande pilastro della strategia americana nella regione è il rapporto con gli alleati, in particolare con l’Australia. Washington può contare sul rinnovato attivismo anti cinese di Camberra. Il governo australiano ha siglato un patto di sicurezza con Vanuatu e ne sta elaborando un altro con Papua Nuova Guinea e Kiribati. In più, Usa e Australia sono unite sempre più attraverso l’Aukus, un’intesa che coinvolge anche il Regno Unito, è che è stata accolta positivamente da diversi Stati del pacifico, come Micronesia, Samoa e Fiji.

Per Pechino la “battaglia del Pacifico” è campale, sia sul piano strategico che sul piano simbolico. Nel primo caso l’aumento della presenza in quella regione rappresenta un’allargamento e fortificazione del proprio cortile di casa, un requisito chiave se vuole sfidare gli Stati Uniti. In secondo luogo il Pacifico rappresenta l’ultimo vincolo con il passato. In quella regione sono rimasti quattro Paesi che ancora non riconoscono la Repubblica Popolare come “vera Cina”. Le Isole Marshall, Nauru, Palau e Tuvalu riconoscono infatti solo la Repubblica di Cina, cioè Taiwan, e non Pechino. Un argine simbolico per Washington e un’umiliazione del passato da sanare per Pechino. La battaglia per il Pacifico è appena iniziata.

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