Il sistema internazionale è scosso da una guerra mondiale, della quale l’Europa è il campo di battaglia principale. Una parte delle ostilità si concentra nel Pacifico occidentale, parete acquea costellata di avamposti che proteggono gli Stati Uniti dalle minacce provenienti dall’Estremo Oriente. Un capitolo-chiave si svolge nell’islamosfera, attraversata da sentimenti antisionisti e destabilizzata da colpi di stato e insorgenze. E altri paragrafi importanti riguardano l’Africa e l’Asia centromeridionale, dove le grandi potenze giocano dei tornei di ombre tra Iran, Turkestan e India.

Gli Stati Uniti sono attivamente coinvolti nel fronte europeo, che vorrebbero trasformare in un giardino del loro impero informale, e nel fronte pacifico, dalla cui tenuta dipendono la loro sicurezza nazionale e la loro centralità nel commercio mondiale. Ma è nell’Atlantico, porta d’accesso all’Emisfero occidentale e scudo della dottrina Monroe, che saranno costretti ad affrontare la prova più dura: i tentativi di sbarco dei loro nemici (leggi Russia e Cina) in risposta all’aggravamento e all’allargamento della conflittualità tra i blocchi.

La situazione ivi descritta potrebbe aver tratto in inganno il lettore. Perché non è stata raccontata la Seconda guerra mondiale, ma la competizione tra grandi potenze del XXI secolo. Il cui esito si giocherà, oggi come in passato, nell’Emisfero occidentale. Battaglia nell’Atlantico, ancora una volta.



La dottrina Monroe alla prova della dottrina Primakov

“Assedia Wèi per salvare Zhào”, così recita il secondo dei trentasei stratagemmi. Ed è questo che la Russia sta provando a fare nel cortile di casa degli Stati Uniti, la Latinoamerica, apportando linfa vitale ai rimasugli guerrafreddeschi – Cuba e Nicaragua –, dando manforte a quel che resta dell’onda rossa del primo Duemila – Venezuela – e corteggiando le potenze-guida del cono sud – Argentina e Brasile. Risposta perfettamente simmetrica all’inarrestabile avanzata occidentale nello spazio postsovietico.

Cuba è dove la presidenza Díaz-Canel ha fatto della prosecuzione della relazione speciale con la Russia uno degli obiettivi prioritari dell’era post-Castro, ottenendo supporto nella resistenza all’embargo – accordi commerciali, cancellazione del debito contratto con l’Unione Sovietica, investimenti e stratosferiche donazioni di petrolio, grano e altri beni – in cambio di spalleggiamento diplomatico. Ed è dove, un giorno, potrebbe essere riaperta la base sigint di Lourdes.

Il Nicaragua è dove la Russia ha rimesso piede nel 2007, anno del ritorno al potere del sandinismo, e che da allora è un’exclave del Cremlino. Supporto diplomatico: riconoscimento della statualità di Abcasia e Ossezia meridionale e dell’annessione della Crimea, appoggio in sede di Nazioni Unite. Interventismo defilato: il ruolo del gruppo Wagner nell’addestramento delle forze di sicurezza alla repressione di rivolte e guerre urbane, rivelatosi fondamentale nell’evitare la caduta dell’esecutivo durante la quasi-guerra civile del 2014-18. Cooperazione militare. Spionaggio: la base Chaika, attiva dal 2017, operata da Roscosmos e specializzata in intelligence dei segnali.

I combattenti privati della Wagner sono stati segnalati in Venezuela, sin dai tempi della crisi presidenziale del 2019, dove hanno impedito che le sollevazioni popolari si trasformassero in un cambio di regime e garantito la sicurezza fisica di Nicolas Maduro. La cooperazione bilaterale è in piedi dall’inizio del Duemila, dai primordi del chavismo, e il Venezuela è, ad oggi, il principale collaboratore commerciale, energetico e militare della Russia in America Latina.

Quello russo-venezuelano è un rapporto basato su un do ut des perfetto: Mosca ha salvato il chavismo, iniettato (miliardi di) rubli nell’economia in affanno e fornito tecnologia per spiare le telecomunicazioni fino a Brasilia, Caracas ha comprato prodotti militari russi del valore di oltre undici miliardi di dollari, sarebbe disponibile a far costruire un’infrastruttura militare nell’isola La Orchila e partecipa alle guerre informative del Cremlino nella regione.

Oltre che lungo la Caracas-L’Avana-Managua, che per Washington è la Troika della tirannia, Mosca non ha mai smesso di corteggiare le due potenze-guida del cono sud, Brasilia e Buenos Aires, storicamente riluttanti ad accettare l’egemonia dell’Angloamerica sulla Latinoamerica. Uroboro: corteggiate (e infiltrate) da Tokyo e Berlino durante la Seconda guerra mondiale, contese da Washington e Mosca durante la Guerra fredda e oggi al centro della nuova Battaglia dell’Atlantico.

Il Brasile è tra i padri fondatori dell’alternativa al G7, il gruppo BRICS, e ha ricercato un’ampia collaborazione con la Russia a partire dall’era Lula. Nel 2003 un primo patto sulla cooperazione militare e tecnologica. Nel 2005 la nascita dell’alleanza strategica. Nel 2008 il turno di un accordo su aerospazio, difesa e nucleare. Nel 2017 l’avvicinamento all’Unione Economica Eurasiatica. Diversi presidenti, di fedi politiche talvolta opposte, accomunati da un orizzonte: la transizione multipolare.

L’Argentina ha presentato domanda di adesione al gruppo BRICS nel 2022, dopo aver resistito alle pressioni della presidenza Biden sulla partecipazione al regime sanzionatorio antirusso, ed è dal 2014, cioè dal dopo-Euromaidan, che si rincorrono periodicamente voci di trattative sottobanco per la costruzione di basi russe sul suo territorio. Alimenti, armi e antiamericanismo a fare da carburante alla macchina della cooperazione bilaterale, come durante la Guerra fredda, con Mosca avente come orizzonti l’Antartide e i giacimenti minerari e con Buenos Aires mai dimentica delle Falkland/Malvine e fiduciosa nel superamento dell’unipolarismo.

Un dragone nel cortile degli Stati Uniti

La strategia della Cina per farsi largo in America Latina è tanto semplice quanto, apparentemente, efficace: fare leva sull’economia per attirare l’intera regione nella propria orbita geopolitica. Accordo dopo accordo, investimento dopo investimento, Pechino si è fatta diversi amici locali, a loro volta ben felici di poter contare su un governo che non li guarda dall’alto verso il basso. Per capire come si sta muovendo il Dragone nel cortile di casa degli Stati Uniti bisogna necessariamente partire dall’economia.

Soldati dell’esercito cinese in marcia. Foto: EPA/NAOHIKO HATTA / POOL.

Ebbene, c’è subito da evidenziare un aspetto curioso. Nel 2022, la Repubblica Popolare Cinese ha investito 8,4 miliardi di dollari nell’Unione Europea, 4,7 negli Stati Uniti e dai 7 ai 10 miliardi in America Latina e Caraibi. Il fatto che questa regione potesse attirare una quantità di investimenti cinesi paragonabili a quelli destinati a Europa e Usa, economie molto più grandi e importanti, era inimmaginabile solo un decennio fa. Ma per quale motivo la Cina sta dedicando risorse e attenzione a queste latitudini?

In parte, il gigante asiatico intende espandere la propria sfera di influenza attraverso la cosiddetta cooperazione sud-sud, in un quadro di sviluppo incentrato su aiuti, investimenti e commercio. L’attenzione della Cina al soft power, incluso il rafforzamento dei legami culturali ed educativi, ha inoltre aiutato Pechino a costruirsi una buona immagine agli occhi dei governi locali, tanto da esser considerato un valido partner alternativo agli Usa. Risultato: il Dragone ha firmato partenariati strategici globali – la più alta classificazione che i cinesi assegnano ai loro alleati diplomatici – con Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela.

La strategia del governo cinese in America Latina, come si legge nel Libro bianco di Pechino sulla strategia di difesa del 2015, comprende anche la cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Gli sforzi della Cina per stringere legami militari più forti con le sue controparti latinoamericane includono la vendita di armi, scambi militari e programmi di addestramento.

Il Venezuela, ad esempio, è diventato il principale acquirente nella regione di materiale militare cinese. Tra il 2009 e il 2019, ha stimato il think tank statunitense Council on Foreign Relations, Pechino avrebbe venduto armi a Caracas per un valore di oltre 615 milioni di dollari. Bolivia ed Ecuador hanno speso milioni di dollari per acquistare aerei militari cinesi, veicoli terrestri, radar di difesa aerea e fucili d’assalto. Cuba ha cercato di rafforzare i legami militari con la Cina, ospitando diverse delegazioni in visita dell’Esercito Popolare di Liberazione.

La crescente presenza della Cina è visibile anche nella sua partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace ad Haiti, così come nelle esercitazioni di addestramento militare e nella fornitura di rifornimenti alle forze dell’ordine locali in tutta la regione. La Cina ha, infatti, fornito ai dipartimenti di polizia boliviani attrezzature antisommossa e veicoli militari, e ha donato mezzi di trasporto e motociclette alle forze di polizia in Guyana e Trinidad e Tobago.

Per quanto riguarda il futuro, non è da escludere che Pechino possa costruire nella regione una o più basi militari strategiche. Secondo alcune recenti indiscrezioni, il gigante asiatico starebbe lavorando dietro le quinte per ottenere da Buenos Aires il permesso di stabilire una base navale nella città di Ushuaia, nella provincia della Terra del Fuoco, che garantirebbe effettivamente al Dragone l’accesso all’Antartide.

Quella cinese, se realizzata, sarebbe più di una semplice base: un bastione. Bastione che, di fatto, consentirebbe alla Marina cinese di controllare un passaggio critico che collega gli oceani Atlantico e Pacifico. Alberto Rojas, direttore dell’Osservatorio Affari Internazionali dell’Università Finis Terrae del Cile, sostiene che, nel caso in cui la base cinese di Ushuaia dovesse concretizzarsi, la struttura potrebbe diventare la prima di tante altre nella regione. Quando affacciate sul Pacifico e quando sull’Atlantico.

Oggi è ieri

La nuova Battaglia dell’Atlantico è la contrapposizione tra la dottrina Monroe e la dottrina Primakov, cioè tra unipolarismo e multipolarismo. È un remake originale di scontri del passato, che mescola elementi della corsa guglielmina ai Caraibi – gli occhi sul Nicaragua, il sogno di una base navale in Venezuela –, della sfida nazista degli anni Quaranta e della Guerra fredda, che vede lo stesso protagonista – gli Stati Uniti – alle prese con vecchi e nuovi antagonisti.

La riedizione della Battaglia dell’Atlantico è agli albori, ma premette e promette tanti colpi di scena quanti colpi di grazia: golpe, guerre civili, guerre ibride, insorgenze, ritorno dei regimi militari, rivoluzioni, terrorismo, violenza politica. Perché è la custodia esclusiva dell’Emisfero occidentale l’osso sacro dell’egemonia globale degli Stati Uniti, che non potrebbero controllare l’Eurasia se costretti nel proprio cortile, perciò è lecito attendersi un’ardua resistenza alle aspirazioni di Russia e Cina.

L’asse Mosca-Pechino non sbarcherà in Sicilia, ma in Normandia, ovvero il prezzo da pagare sarà elevato. Ne sanno qualcosa gli ideatori del Canale di Nicaragua, sepolto (per sempre?), Evo Morales – vittima di un golpe nel 2019 –, Lula – detenuto per un anno e mezzo –, Daniel Ortega – incapace di porre fine alla quasi-guerra civile che attanaglia il suo paese dal 2013 – e Maduro, il cui Venezuela è stato ridotto a uno stato simil-precapitalistico da guerre economiche, operazioni cibernetiche e sabotaggi. E ne sanno qualcosa il Brasile, casa di un tentato golpe nel 2023, e il Perù, caduto nell’anarchia nel dopo-Castillo.

La trasformazione dell’Atlantico in un fronte primario non è inevitabile: molto dipenderà dal modo in cui evolverà la competizione tra grandi potenze negli anni a venire. Se Stati Uniti, Russia e Cina non riuscissero a trovare un modus vivendi, e diventasse la norma la violazione delle linee rosse, è altamente probabile che si assisterebbe ad un ritorno al 1942. La perfezione della geometria delle ritorsioni: estero vicino per estero vicino. Guerra per procura per guerra per procura. Guerra ibrida per guerra ibrida.

Oggi è ieri. Nel Duemila come nel Novecento, come nell’Ottocento, la conformazione del sistema internazionale non si decide nel supercontinente Eurasia, anche se questa è la convinzione comune, ma nelle terre dell’Emisfero occidentale, arterie il cui sanguinamento potrebbe causare la fine dell’Impero americano così come conosciuto. La partita è aperta.