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“In Egitto l’esercito comanderà sempre, su tutto e tutti. Non lasceranno il potere”. Questo il futuro secondo Amir* mentre, camminando per le vie del Cairo, giungevamo insieme nell’estate del 2019 in una piazza Tahrir ormai continuamente presidiata da militari, poliziotti o forze di sicurezza.

Sono passati nove anni da quella rivoluzione che gridava “pane, libertà e giustizia sociale” eppure oggi la situazione dei diritti umani in Egitto “è grave da diversi punti di vista: torture, sparizioni, arresti arbitrari, condanne al termine di processi irregolari, bavaglio alla libertà di espressione, impedimenti alla libertà di manifestare, repressione ai danni dei difensori dei diritti umani”, ci ricorda Riccardo Noury – portavoce di Amnesty International Italia. 

Paradossalmente, esattamente nove anni fa, il 25 gennaio 2011, sembrava che il vento in Egitto soffiasse in direzione della libertà. Gli appelli sui social network e l’esempio della rivoluzione tunisina: milioni di egiziani scendevano in piazza pacificamente con la speranza nel cuore che fosse finalmente giunto il momento di rendere simili le sponde sud e nord del Mediterraneo: un nord-Africa democratico come l’Europa democratica. Sembrava che il popolo si fosse svegliato dopo un torpore durato trent’anni, quelli del regime di Mubarak. In poche settimane il “Faraone” si dimetteva e il popolo egiziano era euforico.

Nel 2012, dopo un anno di transizione, le prime elezioni democratiche della storia del paese consegnarono però agli elettori alternative poco incoraggianti. Scegliere tra Mohamed Morsi, islamista esponente dei Fratelli Musulmani e Ahmad Shafiq, ex generale dell’aeronautica ritenuto da molti complice del regime di Mubarak. La scelta elettorale cadde su Morsi, il quale coltivava legami con i jihadisti del Sinai e pensava di potersi attribuire poteri speciali per poter superare le difficoltà economiche. “L’elezione di Morsi ha dato l’impressione a una parte della popolazione che la sua presidenza potesse aprire la strada ad una deriva in senso islamista e autoritario del paese,” ci ricorda Matteo Colombo, Associate Reserch Fellow presso Ispi. Tale impressione fu poi rafforzata dall’approvazione di una Costituzione che poneva alcuni aspetti della legislazione sotto un controllo esterno di aderenza ai dettami della legge islamica.

Quando un anno dopo, nel 2013, gli egiziani tornarono a protestare contro il malgoverno di Morsi, quel tipo di unità popolare che si era avuto nel 2011, non esisteva più. “Dopo la caduta di Mubarak, l’opinione pubblica egiziana si era gradualmente divisa rispetto ai temi della laicità dello stato, del ruolo dei militari e dei poteri da assegnare al presidente,” precisa Colombo. Gli islamisti, che nel 2011 erano in piazza insieme ai liberali per chiedere le dimissioni di Mubarak, erano ora dall’altra parte, e difendevano il neo presidente Morsi. È proprio in quel momento, con la presidenza Morsi, che l’Egitto ha perso la sua occasione storica per modernizzarsi in senso liberale. Il primo esperimento realmente democratico, le elezioni e gli egiziani chiamati a scegliere. Forse scelsero male, eppure un germoglio di pluralismo era sbocciato e il fatto che la piazza nel 2013 fosse divisa, dimostrava proprio che nel paese si era finalmente innescato quel meccanismo di pluralità di opinioni tipico della democrazia. Se Morsi non avesse commesso l’errore di imitare il ‘Faraone’ nel suo autoritarismo, oggi forse saremmo a un epilogo diverso. 

Memore della rivoluzione del 2011, il popolo scese di nuovo in piazza e questa volta l’esercito intervenne anche a livello politico. Il generale Abdelfatah al-Sisi guidò un colpo di stato con quale depose Morsi. Un anno dopo, nel 2014, al-Sisi, dimessosi dall’esercito, si candidava alle elezioni diventando presidente della Repubblica. Molti già intuivano cosa stava accadendo: la parabola della democrazia. Il 2011: la piazza e la protesta e poi la rimozione del dittatore. In seguito le elezioni, la transizione e infine il colpo di stato militare che riporta alla dittatura. Il ciclo si chiude, nel 2014, tre anni dopo la rivoluzione. L’epilogo però è diverso da quello sperato: da una dittatura si arriva a un’altra dittatura, secondo molti anche peggiore.

Da allora, la storia dell’Egitto appare più buia. In nome della lotta al terrorismo si è contribuito a criminalizzare persone non coinvolte in nessun atto violento o addirittura impegnate in attività del tutto pacifiche. “Ad Amnesty International non piace fare confronti,” afferma Noury, “ma la repressione attuale in Egitto è (dal punto di vista del numero e della vastità delle violazioni dei diritti umani) persino peggiore e comunque più feroce rispetto ai tempi di Mubarak. A partire dalla “Tiananmen del Cairo” (i massacri delle piazze dell’agosto 2013), abbiamo assistito a una repressione sempre più ampia, riguardante interi gruppi e non solo la classica opposizione politica”. 

La repressione in questi anni non ha riguardato solo cittadini egiziani, e questo l’Italia lo sa bene. Il 25 gennaio per il Cairo vuol dire anniversario della rivoluzione ma per l’Italia vuol dire un altro anno senza Giulio Regeni. Il ricercatore italiano scomparve in quella data, nel 2016. Oggi sappiamo che fu arrestato dalle forze di sicurezza egiziane, torturato e ucciso in circostanze fino ad oggi mai chiarite. Dal 2016 ad oggi, depistaggi e mancata collaborazione delle autorità egiziane non hanno permesso di trovare la verità sulla morte del giovane italiano. Le indagini sono infatti a un punto fermo. “La procura di Roma ha fatto il massimo, arrivando a individuare una serie di funzionari egiziani coinvolti nelle fasi immediatamente precedenti il sequestro di Giulio. Purtroppo, la collaborazione delle autorità giudiziarie del Cairo continua a non esserci”, afferma Noury, il quale ritiene sia giunto il momento che l’Italia richiami nuovamente il proprio ambasciatore dal Cairo.

Ma dove sono tutti quegli egiziani che nove anni fa erano in piazza? Perché non protestano più? Nel settembre 2019, poche migliaia di manifestanti sono nuovamente scese in piazza a protestare, fomentate da Mohamed Ali, un ex contractor in esilio volontario in Spagna, che ha rivelato scandali legati agli alti gradi militari e politici del paese. Questa del 2019 era però una piazza differente rispetto a quella del 2011 e a quella del 2013. “Non ha l’ambizione di cambiare il sistema, in quanto i numeri dei manifestanti sono troppo limitati,” afferma Colombo. Si tratta più che altro di “uno sfogo di insofferenza nei confronti di una certa gestione della politica”. 

Questa insofferenza va però interpretata sotto un’ottica che va oltre la corruzione delle autorità. Al popolo egiziano non importa tanto della corruzione: in Egitto c’è sempre stata. Quello che fa rabbia e che potrebbe, forse, scatenare ancora qualche sacca di protesta, è il fatto che la situazione economica è piuttosto critica. Sulla carta, e secondo le stime della Banca Mondiale, l’economia egiziana non se la passa male: il prodotto interno lordo è cresciuto in media del 3,6% dal 2012 al 2018. Tuttavia, se osserviamo i dati nel dettaglio, come sottolinea Colombo, è evidente che “una parte della popolazione non abbia beneficiato da questa crescita”.

E in effetti, come sottolinea l’analista, il modello egiziano si è basato principalmente sui grandi appalti per la costruzione di grandi opere, soprattutto nell’edilizia e nel turismo, facendo affidamento su investimenti stranieri, in particolare dall’Europa e dal Golfo. Le aziende coinvolte in questi investimenti – e che ne hanno tratto profitto – sono soprattutto quelle vicine ai militari. Il raddoppiamento del canale di Suez, la costruzione della nuova capitale, le numerose località turistiche che si stanno rinnovando o nascendo dal nulla nel deserto, come New El Alamein City, Al Galala City, Ain Sokhna, solo per citarne alcune. Basta uscire fuori dal Cairo, guidando lungo la costa del mar Rosso, o lungo la costa nord sul Mediterraneo o nel sud del Sinai, e si è di fronte a un immenso cantiere. Gli egiziani comuni difficilmente potranno usufruire di queste strutture: non se le possono permettere. “In Egitto, è come se fosse scomparsa la classe media,” ci fa notare Mohamed*, un commerciante del Cairo. “Una parte della popolazione è incredibilmente ricca; si tratta di famiglie legate all’establishment militare o coinvolte in attività economiche importanti, con grandi aziende del turismo, dell’import-export o dell’edilizia”. La maggior parte degli egiziani però, ancora fatica ad arrivare a fine mese, in molti casi sotto la soglia di povertà. Per fare un esempio, ci sono molte persone che arrivano a guadagnare anche 30.000 sterline egiziane (circa 1.800 euro) al mese e altre arrivano a malapena a 2.000 sterline (circa 120 euro). Questo divario in alcuni casi è anche maggiore e la cosa sconcertante è che una via di mezzo in realtà non c’è e i prezzi continuano a salire, mettendo in difficoltà soprattutto i ceti più popolari.

I progetti legati all’edilizia sono numerosissimi. Migliaia di abitazioni tutte identiche tra loro, sono già state costruite in aree periferiche ma la domanda che ci si pone è: chi abiterà queste case? Comprare un’abitazione in Egitto oggi è un lusso e i giovani egiziani faticano a far decollare le proprie ambizioni di vita (casa, lavoro, famiglia), interrotte necessariamente, per gli uomini, dalla leva obbligatoria: due anni in cui tutto si blocca per questi giovani che si trovano a percepire una paga tra i 17 e i 29 dollari al mese.

Che fine ha fatto dunque la rivoluzione? Se c’è povertà, poca libertà e repressione violenta di oppositori (presunti o tali), dove sono finiti i giovani rivoluzionari? Perché non scendono in piazza, magari emulando un’altra volta i paesi vicini, visto che in Iraq, Libano e Iran si sta gridando la fame di libertà e giustizia? Quella generazione di giovani egiziani ha semplicemente perso la speranza. Gli arresti, le sparizioni, le torture, hanno convinto molti di loro che non ne vale più la pena, soprattutto se la creatura contro cui ci si vorrebbe opporre controlla ogni singolo aspetto dell’economia, della politica e della società di questo immenso paese. I militari, attraverso il controllo dei media, hanno inoltre convinto buona parte della popolazione che senza di loro l’Egitto cadrebbe in mano agli islamisti e al caos. 

Per gli amanti della libertà è una constatazione amara: per quei giovani che solo nove anni fa scoprivano la politica, il dibattito e la piazza, oggi la “protesta” si traduce solo nel divertimento, nel praticare sport, frequentare locali dove si suona musica dal vivo, andare ai concerti e nelle discoteche. In qualche modo protestano trasgredendo, essendo l’Egitto comunque un paese musulmano dove molte di queste attività sono ancora viste come “peccato” e in un certo senso “proibite”. L’alcol non è illegale, è venduto e consumato da molti egiziani, giovani e non, ma rimane comunque vietato dall’Islam. Emblematico di questa condizione, è uno dei più storici “baladi bar” (bar popolari) del Cairo: Horreya, che tradotto vuol dire, ironicamente, proprio “libertà”. In un paese dove la protesta per la libertà è stata soffocata, l’unico luogo in cui questa rimane ancora “viva”, sono i luoghi come Horreya: dei tavoli, tante birre vuote ed egiziani di tutte le estrazioni sociali che si mischiano agli occidentali che oggi vivono al Cairo. Entrando, prima di lasciarsi andare alla leggerezza alimentata dall’alcol, i clienti del bar si guardano tutti a vicenda: c’è chi è solo, con tre birre vuote sul tavolo e fuma un narghilè, chi è in coppia e chi in gruppo. Quando ci si scambia sguardi, tra un sorso di Stella e un altro, sembra quasi che le menti comunichino telepaticamente, dicendosi queste parole: “non ci resta che protestare così. Questa, nove anni dopo, è la nostra piazza Tahrir”. 

 

*(Nome di fantasia).





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