La partita per le nomine nelle partecipate pubbliche è arrivata all’ultimo miglio. E Mario Draghi potrebbe prendere nelle giro di pochi giorni le decisioni definitive riguardanti il futuro di aziende come Cassa Depositi e Prestiti Ferrovie dello Stato, i cui consigli di amministrazione e i cui vertici vanno in scadenza. Qualche giorno in più richiederà invece la scelta dei vertici Rai, per la cui presidenza in particolare va individuata una figura capace di ottenere la maggioranza di due terzi in Commissione di Vigilanza senza dividere la maggioranza. Queste le indiscrezioni che ha riportato Dagospia, testata che ha rivelato l’organizzazione di una riunione nella giornata del 25 maggio in cui il premier si consulterà con il ministro dell’Economia Daniele Franco e il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera per valutare le liste proposte dai “cacciatori di teste” incaricati dal governo riguardanti i futuri vertici delle partecipate.

Draghi, Franco e Rivera rimettono ordine

Nelle scorse giornate abbiamo dato conto dei nomi più quotati per le società partecipate, del ruolo cruciale che la partita delle nomine ha per la definizione degli assetti strategici del Paese nel periodo post-pandemico e della conferma da parte di Draghi di un metodo basato sull’accentramento sulle strutture istituzionali, e non sui partiti come tradizionalmente accaduto in passato, del processo selettivo. La maggiore discontinuità di Draghi col precedente governo Conte II è stata proprio la scelta di puntare con forza sul rafforzamento della fibra del sistema e dell’apparato pubblico, rimettendo ordine nel ginepraio della politica italiana e dando valore all’azionista, il ministero dell’Economia e delle Finanze, valorizzando il fatto che il detentore delle quote maggioritarie di una società partecipata non possa non avere voce in capitolo nel consigliare il premier, che prenderà le scelte definitive, sui vertici delle controllate.

Rimettere ordine:il mantra è chiaro. Draghi dopo la sua ascesa al governo ha potuto contare sulla capacità di mobilitare la fedeltà e l’allineamento di importanti burocrazie strategiche dello Stato italiano alla cui direzione si è formato e su cui oggigiorno punta per dispiegare la sua azione di governo. Assieme alla Banca d’Italia, il Tesoro è l’istituzione “draghiana” per eccellenza, e il suo rapporto osmotico con l’apparato a partecipazione pubblica è figlio proprio dell’era in cui Draghi, nei tumultuosi Anni Novanta, ricoprì la carica oggi assunta da Rivera, guidando la transizione dell’attuale apparato del Mef da proprietario esclusivo dei gruppi d’interesse nazionale a azionista di riferimento di società formalmente private. Processo che si basò su una scommessa di fatto persa (l’idea che la privatizzazione avrebbe mobilitato la corsa delle imprese messe sul mercato ad accrescere l’esposizione borsistica e la capitalizzazione) ma che si accompagnò al mantenimento di quote di riferimento dello Stato in aziende strategiche come Eni, Enel, il gruppo Finmeccanica (oggi Leonardo), Snam, Fincantieri e Cdp.

Il ruolo chiave del direttore generale

La creazione del maxi-apparato del Mef, l’accumulazione di un’ampia quota di dossier in capo a Via XX Settembre, la necessità di far coesistere il controllo delle partecipate con la validazione e l’applicazione dei programmi economici dell’esecutivo, il rispetto dei termini sui vari documenti di matrice economico-finanziaria e una vigilanza prudenziale sul bilancio dello Stato e la presenze di un’ampia serie di succursali e agenzie su cui vigilare ha negli anni inaugurati dall’era Draghi amplificato il peso specifico del direttore generale del Tesoro. Trovatosi ad essere, assieme al Ragioniere generale, la figura di punta di un vero e proprio “Stato nello Stato”, l’organizzatore di processi, norme e attività burocratiche in grado di snellire processi politici in genere complicati per la costruzione di nuove voci di spesa e garantire la continuità operativa del ministero al cambio di ministro o addirittura di maggioranza.

Rivera, titolare della carica di direttore generale dall’agosto 2018, è passato dall’era gialloverde al governo Draghi, ha ideato lo sforzo, troppo spesso non recepito da Roberto Gualtieri, per ideare nuove forme di finanziamento pubblico per l’Italia durante la pandemia con i nuovi Btp Italia e i Btp Futura e ora è uno dei consiglieri di ultima istanza del premier sulle nomine. Draghi deciderà in autonomia, ma non prima di aver sentito l’ultimo parere dei suoi fedelissimi, che sui curriculum scelti dai cacciatori di teste e testati dal consigliere Francesco Giavazzi opereranno l’ultimo giudizio di merito.

Lo Stato torna al centro

Il duo Franco-Rivera rappresenta forse la massima espressione dello “Stato maggiore” del draghismo plasmato tra Via XX Settembre e Via Nazionale ora giunto alla guida del governo di unità nazionale. Da un lato Franco, ministro dell’Economia già passato per l’incarico di Ragioniere generale e dg della Banca d’Italia; dall’altro Rivera, uomo per tutte le stagioni, pragmatico e profondo conoscitore delle leve del potere. Un potere che l’era Draghi sta ridisegnando spostandolo, contro molti pronostici, su un asse che vede un maggior ruolo effettivo dello Stato nelle sue articolazioni, nelle sue strutture, nel suo radicamento con le organizzazioni controllate e gli interlocutori chiave.

Un processo a tutti gli effetti politico che Draghi sta impostando cooptando i dipartimenti di cui ha più profonda conoscenza e che si estenderà ai ministeri a guida partitica nella fase di applicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, la cui cinghia di trasmissione sarà il ministero dello Sviluppo Economico guidato da Giancarlo Giorgetti. La fase delle nomine avrà dunque come maggiore lascito la presa definitiva di consapevolezza che la quota maggioritaria della classe dirigente di punta della Repubblica è oggi nello Stato, nelle burocrazie strategiche, nelle leve profonde e continue di apparati come il Mef che prescindono dalla caducità di governi e leader, piuttosto che nei partiti. I nominati alle partecipate si interfacceranno con Draghi e i “draghiani” delle istituzioni sapendo quali sono le figure che, molto spesso nell’ombra, rappresentano la continuità della Repubblica. Processo che va avanti fin da quando un Draghi in ascesa valorizzò il ruolo della burocrazia del Tesoro nella transizione tra Prima e Seconda Repubblica.





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