“Grande è la confusione sotto il cielo”, affermava Mao Zedong in una citazione passata alla storia. Altrettanto enorme è la confusione che c’è oggi nel raccontare cosa sta succedendo in Cina. A proposito di Mao, c’è chi definisce Xi Jinping, l’attuale presidente del Paese, il “nuovo Mao”, cogliendo le poche affinità tra i due leader ma ignorando le enormi differenze. Allo stesso tempo, a livello sociale gli osservatori di affari cinesi si suddividono in due categorie: quella di coloro che parlano espressamente di “ritorno di Mao”, per evidenziare il pugno duro adottato da Xi nell’affrontare le questioni più rilevanti, e quella, al contrario, di chi si limita ad annotare la comparsa di alcune tendenze che richiamano il maoismo.

Partiamo dal presupposto che Mao, dalla Cina, non se n’è mai andato da quando, il primo ottobre 1949, ha fondato la Repubblica Popolare Cinese. Il ritratto del Grande Timoniere campeggia ancora oggi in piazza Tienanmen, sulla porta d’accesso alla Città Proibita, a metà strada tra il luogo un tempo sacro agli imperatori e le istituzioni più importanti del Partito comunista cinese (Pcc).

Xi, inoltre, è solito citare il nome di Mao Zedong negli affari politici e ideologici. Come nel 2014, quando, un anno dopo esser salito al potere, ha esortato i membri del Pcc ad abbracciare lo “spirito” di Mao, ovvero una dottrina guida che include la lotta di classe e la rivoluzione permanente per garantire la sopravvivenza dello stesso Partito.

Insomma, anche se il Libretto Rosso non è più la bussola del cittadino cinese moderno, e i volti del Grande Timoniere non osservano più i passanti da ogni facciata che si rispetti, questo non significa che il maoismo sia stato sostituito dal capitalismo più sfrenato. Allo stesso tempo, non sarebbe corretto affermare che i precetti di Mao continuino a guidare l’approccio di Pechino con il mondo. È infatti finita l’era dell'”anti imperialismo” tout court, anche se l’ombra di Mao Zedong fa capolino tra i grattacieli lussuosi delle grandi megalopoli cinesi.



Retorica e politica

La parola d’ordine di Xi Jinping coincide con il “sogno cinese“. Xi vuole riportare la Cina al centro del mondo, dove era stata per millenni prima che l’Occidente prendesse il sopravvento. Cancellare il ‘900 è l’imperativo del governo cinese, che si è impegnato a colmare il gap con il resto del mondo puntando sullo sviluppo. Il pensiero dell’attuale leader cinese è stato inserito all’interno della Costituzione, proprio come accaduto per Mao Zedong, ma, come detto, le due figure sono ben diverse.

Mao esercitava il suo potere indipendentemente dal Partito, mentre Xi è anima e cuore del Pcc, che oggi si è istituzionalizzato e ha assunto una struttura più complessa rispetto al passato. Possiamo affermare che l’attuale presidente cinese assomiglia più ad un amministratore delegato (e il partito alla sua azienda) che non ad un leader di lotta e rivolta.

Cosa è rimasto, dunque, di Mao nella Cina moderna? Senza ombra di dubbio la retorica, visto che il suo pensiero costituisce pur sempre le fondamenta del cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”, adattato dalla leadership comunista al corso dei decenni, ma anche le sue ricette – anche quelle riadattate al presente – per risolvere alcuni problemi sociali.

Un esempio? Nel 2019, i giornali cinesi davano risalto all’idea di inviare oltre dieci milioni di ragazzi laureati nell’entroterra del Paese per promuovere lo sviluppo tecnologico, culturale e medico delle zone rurali più isolate. Il cuore della proposta era semplice: come spiegato da InsideOver, spedire nelle campagne – su base volontaria – forze fresche e abituate alla vita cittadina, in una sorta di servizio civile alternativo.

Quattro anni dopo, il sito Sixth Tone ha raccontato il boom dei campi estivi, sorti proprio sulla falsariga dei giovani da inviare nelle campagne. I genitori sembrerebbero essere sempre più propensi a spedire i loro figli in apposite strutture di formazione dislocate nelle terre selvagge, nella speranza che la prole possa formare la corazza necessaria per affrontare le sfide quotidiane.


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Il neomaoismo: il nemico di Xi

Mao per i cinesi ha un enorme, grande, merito: quello di aver riunificato la Cina sconfiggendo prima gli invasori giapponesi poi le truppe nazionaliste guidate da Chiang Kai Shek. Guai, tuttavia, ad eccedere con le dosi di maoismo.

È vero che Xi Jinping non può quindi fare a meno di rifarsi al più nazionalista dei nazionalisti cinesi, ma accarezzare troppo il Grande Timoniere rischia di far emergere alcune spinose contraddizioni economiche, come ad esempio il gap di ricchezza che separa l’entroterra, più povero e rurale, e le grandi metropoli, scintillanti e globalizzate.

Ad evidenziare questo fenomeno troviamo i marxisti ortodossi e nostalgici dell’epoca di Mao, ovvero degli anni in cui lo Stato garantiva uguaglianza e assistenza dalla culla alla tomba. Costoro rientrano tra le fila dei cosiddetti neomaoisti, avversi all’indifferenza mostrata dalle attuali autorità nei confronti delle classi inferiori e degli interessi dei lavoratori. Ecco: Xi ha preso le distanze da loro, e anzi, non ha lesinato a neutralizzare la minaccia rappresentata da alcuni esponenti di questa corrente.

Insomma, l’attuale leader cinese deve dimostrarsi abile nel destreggiarsi tra le varie fasce della popolazione. Perché le grandi metropoli saranno pure abitate da una classe media desiderosa di spendere e spandere, ma nelle campagne vivono ancora contadini abbagliati dal mito dell’uguaglianza professato da Mao. Un ritorno “moderato” del Grande Timoniere, al momento, può accontentare tutti. O quasi.

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