Jean-Claude Juncker è l’uomo simbolo di questa Unione europea che attende come una condanna (o una rinascita) le elezioni del 2019. Per l’Europa sarà un voto decisivo. E il fronte sovranista sembra essere intenzionato a porsi come seconda forza dell’Ue, sicuramente prima dei socialisti e forse dopo il Partito popolare europeo. Ma se il movimento composto da Matteo Salvini e Marine Le Pen è considerato il piccone nato per demolire quest’Unione, bisogna sempre ricordare che i problemi per cui i sovranisti prendono consenso sono nati soprattutto grazie a Juncker. Ed è forse lui la vera arma in mano ai partiti ribelli o, paradossalmente, il vero nemico di Bruxelles.

Perché non solo l’ha condannata a questa stagnazione continua, ma neanche la vuole cambiare. E senza alternative, l’Europa sarà per forza di cose costretta a tornare agli Stati nazionali. Giancarlo Perna, per La Verità, lo ha spiegato benissimo: “Se c’è un euroscettico totale, questo è Juncker. Dopo la Brexit e l’emergere dei populismi, considera l’Ue in disfacimento”. Perché la sua idea non risiede nel dialogo, ma nel muro contro muro. E così crea solo le basi per una spaccatura del continente che invece potrebbe evitare proprio cambiando i parametri che fino a questo momento hanno deciso la vita dell’Unione europea.

Il crepuscolo del lussemburghese, noto ormai per le gaffe, le scene semi-comiche e per le accuse di alcolismo, coincide con il crepuscolo della sua Europa. Un’Europa che però è lui stesso ad aver contribuito a demolire attraverso una serie di azioni e decisioni che non hanno fatto altro che esacerbare gli animi dei governi nazionali e dei partiti che hanno raccolto il risentimento contro l’Ue. E la verità è che già da quando era primo ministro del Lussemburgo, i sentori dovevano essere negativi.

Junker finì il suo mandato in Lussemburgo con uno scandalo che riguardava i servizi segreti del Granducato. Le accuse nei suoi suoi confronti erano di aver creato un sistema di spionaggio illegale e di schedatura di tutti i cittadini del Paese. L’attuale presidente della Commissione europea negò qualsiasi coinvolgimento. Ma poi il capo degli 007 lussemburghesi (composti da qualche decina di uomini) tirò fuori il coniglio dal cilindro. Non contento di finire solo lui sulla graticola, fece pubblicare le conversazioni registrate fra lui e Juncker in cui l’allora premier appariva perfettamente consapevole di quanto successo. E da lì, le dimissioni.

Un impresentabile, nella migliore delle ipotesi. Ma non per l’Unione europea, che anzi trovò in lui, dopo le scorse elezioni, l’uomo utile per guidare la Commissione europea, cioè l’organo esecutivo dell’Ue. Una scelta che fu sponsorizzata in particolare dai tedeschi, che vedevano in Juncker un uomo perfetto per perseguire nella loro volontà di guidare l’Ue. Un presidente di Commissione fondamentalmente debole, senza capacitò di compromesso con le istanze euro-scettiche, e alleato dei maggiori leader tedeschi del tempo: Angela Merkel e Martin Schulz.

Il problema è che una volta giunto al vertice d’Europa, Juncker non ha fatto altro che dare il colpo di grazia alla già fragile struttura europea. Con i suoi modi di fare assolutamente poco ortodossi ma soprattutto con l’obiettivo (evidente) di non capire le istanze presentate dai singoli Paesi, il lussemburghese ha sempre tirato dritto. Più miope che convinto, per il capo della Commissione non esiste alternativa a quest’Unione europea e si disinteressa anche del voto popolare. E del resto lui non è certo arrivato alla guida della Commissione con un’elezione.

Esecutore testamentario dell’Unione più che suo migliore interprete e difensore, ora arriverà al 2019 con un’unica certezza: non sarà di nuovo lui il leader dell’Ue. Ma di sicuro il suo successore ne dovrà subire la pesantissima eredità. Un lascito fatto di governi ribelli, un’Europa al collasso e accordi fatti più per interessi delle sue potenze amiche che per il bene del continente. Il polo sovranista lo attacca. Ma forse, arrivati a questo punto, dovrebbe quasi ringraziarlo.

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