Il processo di revisione costituzionale è ufficialmente partito e il presidente russo Vladimir Putin, dopo aver inizialmente ventilato l’ipotesi di una riforma in senso meno presidenzialista, sembra aver cambiato i propri piani per il dopo-2024, accogliendo l’idea di eliminare l’attuale limite dei due mandati consecutivi, valida immediatamente, perciò anche nei suoi confronti. In questo modo, a patto di riuscire a vincere le elezioni del 2024 e del 2030, Putin potrebbe restare alla guida del Cremlino fino al 2036, quando avrà la veneranda età di 83 enni.

La proposta

L’eliminazione del termine dei due mandati consecutivi è una delle tante proposte presentate in questi giorni di laboriosa discussione in sede parlamentare, e avviene sullo sfondo della crescente instabilità nell’arena internazionale, ma anche in quella domestica, dove la società civile è in fermento, dalla capitale fino alla Siberia.

Putin ha dato il via libera, ma affinché la proposta venga effettivamente inclusa nella nuova costituzione dovrà superare due ostacoli: la corte costituzionale, che è chiamata ad esprimere un parere vincolante, e l’elettorato, che sarà chiamato alle urne il prossimo mese, ad aprile, per votare gli emendamenti presentati.

La situazione dev’essere stata considerata particolarmente grave per aver spinto il presidente russo a fare un simile dietrofront. Nelle settimane e nei mesi scorsi, infatti, si era espresso contrario alla possibilità di modificare la costituzione in tal senso e di restare al potere anche dopo il 2024. Un simile ripensamento può avere un solo significato: la ricerca del successore non ha dato gli esiti sperati. Affidare la guida del Cremlino a qualcuno non all’altezza delle sfide che il paese deve affrontare, potrebbe portare ad un’implosione in stile sovietico, aprendo le porte ad una nuova anarchia sociale e, magari, ad un ulteriore ridimensionamento geografico.

L’erede introvabile

Il sistema-Russia si è storicamente retto su una complessa piattaforma di collaborazione e dialogo fra i principali poteri che gestiscono la vita del paese; un sistema che si è rivelato incapace di riprodursi negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica e che, in seguito, è collassato sotto il peso degli antagonismi post-ideologici e degli interessi economici e privati delle nascenti oligarchie durante la breve parentesi democratica degli anni ’90.

Fra il 1998 ed il 1999, il quasi sconosciuto Putin scalò dapprima i vertici del Fsb, ex Kgb, e poi subentrò all’ormai scomodo Boris Eltsin, inerte dinanzi la crisi economica, l’arresto civile, e l’esplosione dei separatismi nel Caucaso settentrionale. L’ascesa di Putin fu la reazione dello Stato profondo, moribondo non completamente annichilito, allo spettro della disgregazione totale.

Sono passati più di 20 anni da quel lontano 1999, l’anno della svolta, l’anno dell’inizio del ritorno alla normalità, ma le sfide continue e di alto livello che il paese ha dovuto affrontare, dal terrorismo alla nuova guerra fredda, non hanno permesso a Putin di raggiungere l’obiettivo più importante, quello per cui è stato intronato: creare un meccanismo di successione, garante di continuità, quindi fonte di stabilità e grandezza.

Dmitrij Medvedev, ritenuto per molti anni il candidato più papabile, non è stato infine ritenuto all’altezza del ruolo, probabilmente perché nel corso della sua esperienza presidenziale, dal 2008 al 2012, non mostrò né inventiva, né spirito d’iniziativa, preferendo appaltarsi in toto all’agenda scrittagli da Putin. Le dimissioni dell‘intero governo Medvedev di inizio gennaio sono la prova che le aspettative sull’ex delfino sono definitivamente cadute.

Medvedev è stato messo da parte perché lo “zar” non era alla ricerca di una controfigura alla quale suggerire ogni passo da fare nell’ostile arena internazionale, ma di un vero successore, ossia uno statista abile, intraprendente, lungimirante, prudente, un principe machiavelliano, capace di muoversi con autonomia e pragmatismo. La permanenza prolungata al Cremlino, seppure non voluta, assicurerebbe a Putin di poter finalizzare la costruzione del sistema di successione e di trovare l’erede, oppure di formarne uno, riuscendo laddove ha fallito con Medvedev.

I rischi

La decisione sul dopo-2024 comporterà anche dei rischi, che Putin dovrà adeguatamente tenere in considerazione, primo fra tutti l’emergere di un’opposizione anti-sistema in seno la società civile, del quale l’attivista anti-corruzione Alexei Navalny è la massima espressione. Navalny è politicamente irrilevante, ma ha dimostrato di saper sfruttare sapientemente il malcontento serpeggiante nella società in occasione delle elezioni locali di Mosca della scorsa estate, quando mobilitò, per diverse settimane, migliaia di persone contro Russia Unita.

La società russa sta cambiando, e anche molto velocemente: la nuova generazione non sente l’attaccamento con il passato sovietico, ed è più secolarizzata e liberale della precedente. In questo contesto si inquadra l’ambizioso piano di nazionalizzazione delle masse inaugurato da Putin, a base di grandi celebrazioni patriottiche, come la giornata della vittoria del 9 maggio, somministrazione di valori conservatori tramite i curricula scolastici, e l’alleanza con la chiesa ortodossa. Il sistema per la successione funzionerà, infatti, soltanto se ci sarà ancora un popolo da guidare, una nazione da difendere, con una specifica identità da preservare.