La guerra fra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh aumenta di intensità, con il ricorso da parte azera agli armamenti avanzati di fabbricazione israeliana e turca, e di pericolosità, con l’arrivo nella zona dei combattimenti di un esercito sul libropaga turco composto dalle 4mila alle 5mila persone, formato da soldati dell’Esercito Siriano Libero, dei Lupi Grigi e, probabilmente, anche della compagnia di sicurezza privata Sadat.

L’Unione Europea ha lanciato un appello per un cessate il fuoco ai belligeranti ma la tendenza generale della diplomazia comunitaria, e della maggior parte dei Paesi membri, è di un supporto tacito all’Azerbaigian. Quest’ultimo, infatti, è legato a Bruxelles da un partenariato strategico nel campo dell’energia, provvedendo a soddisfare circa il 5% del fabbisogno annuale comunitario di gas naturale, e riveste un ruolo pivotale per i commerci transcontinentali attraverso il porto di Baku e la linea ferroviaria Baku-Tbilisi-Kars.

All’ombra degli scontri, mentre il potente ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu si appresta a mettere piede a Roma per il terzo vertice intergovernativo italo-turco, nel quale si discuterà anche di quanto sta accadendo nel Nagorno Karabakh, la diplomazia dell’Eliseo si attiva per accelerare la fine della guerra, optando per un posizionamento che, pur non sorprendendo, non era del tutto scontato: supporto totale a Yerevan.

L’Armenia alla ricerca di alleati

L’1 ottobre il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha scritto un messaggio sul proprio profilo Twitter indirizzato ad un pubblico specifico di quattro Paesi: “La comunità internazionale ha affermato chiaramente che l’alleanza turco-azera sta conducendo una guerra contro l’Artsakh e l’Armenia con l’aiuto e il coinvolgimento di terroristi stranieri. Questo terrorismo minaccia allo stesso modo gli Stati Uniti, l’Iran, la Russia e la Francia”.

Al cinguettio ne ha fatto seguito un altro, strettamente collegato al precedente, che riconferma la teoria esposta sulle colonne di InsideOver allo scoppio del conflitto: questa è (anche) una guerra tra civiltà. Nella pubblicazione del primo ministro si legge: “I confini dell’Artsakh sono diventati una prima linea di civiltà. L’Artsakh sta combattendo contro il terrorismo internazionale, che non fa distinzione tra i confini geopolitici dei suoi obiettivi. L’Artsakh, l’Armenia e la nazione armena stanno combattendo per la sicurezza globale”.

Le parole e le nazioni elencate da Pashinyan sono state selezionate con cura: parole che evocano lo spettro di uno scontro dai potenziali riflessi globali in quanto coinvolgente fedi e culture, e che sono state indirizzate a degli stati-civiltà che hanno un interesse nel destino del Caucaso meridionale e che, negli anni della guerra al terrore, hanno combattuto in prima linea contro l’internazionale jihadista, diventandone le vittime principali. Ed è a questi Paesi che Pashinyan ha voluto rivolgere il suo appello, consapevole del fatto che la Turchia stia facendo utilizzo della stessa retorica per mobilitare il mondo musulmano a favore dell’Azerbaigian.

Mentre Russia e Iran hanno giocato un ruolo primario nella guerra sin dalle prime schermaglie tra le forze armate azere e quelle armene, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno mantenuto un basso profilo e il messaggio di Pashinyan va interpretato come un tentativo di spronata a questi ultimi due. La Francia, grande potenza continentale tradizionalmente votata all’egemonia e che Emmanuel Macron vorrebbe trasformare nel paese-guida dell’Ue, ha raccolto per prima l’appello partito da Yerevan.

Il triangolo Parigi-Yerevan-Ankara

Macron ha avuto il merito di essere stato il primo tra gli statisti europei a capire che il Nagorno Karabakh, o Artsakh, è di vitale importanza per l’Ue e che il partenariato energetico con Baku non dovrebbe ostacolare lo sviluppo di una visione a 360 gradi sul tema. In breve, secondo Macron, l’acquisto di gas azero non esclude a priori la possibilità di dialogare con Yerevan e, soprattutto, di denunciare i crimini e gli eccessi della politica estera turca nella cosiddetta “Europa allargata”, che include il Mediterraneo orientale, il Vicino Oriente e il Caucaso meridionale.

Il 30 settembre, parlando ad una conferenza stampa a Riga, dove si trovava come parte di una tre-giorni nell’area baltica, il presidente francese ha illustrato la scelta di campo dell’Eliseo per quanto concerne il dossier Artsakh. Prendendo atto “delle dichiarazioni politiche della Turchia […] sconsiderate e pericolose” ed esprimendo “preoccupazione circa i messaggi bellicosi che, sostanzialmente, rimuovono ogni inibizione all’Azerbaigian nel riconquistare il Nagorno Karabakh”, Macron ha spiegato che “non lo accetteremo” e che avrebbe telefonato in serata a Vladimir Putin e Donald Trump nell’attesa di conferire al Consiglio Europeo.

Nella stessa occasione Macron ha anche aggiunto che “è stato determinato che gli attacchi di domenica sono provenuti dall’Azerbaigian”, unendosi alla guerra delle narrative tra le parti e, anche in questo caso, schierandosi a fianco di Yerevan.

A poche ore di distanza dalla conferenza stampa, Macron ha poi raggiunto telefonicamente Putin per discutere della questione. Secondo quanto riportato, i due capi di Stato hanno mostrato una consonanza di visioni sull’argomento, vedendo nel ripristino dei lavori del Gruppo di Minsk un modo per giungere alla pace e denunciando il ruolo turco nei combattimenti, in particolare le notizie inerenti l’invio di mercenari siriani.

Dopo aver parlato anche con Trump, Macron ha conseguito un risultato persino più importante: ha convinto l’inquilino della Casa Bianca a prendere parte all’elaborazione di una dichiarazione congiunta a tre sulla situazione nel Nagorno. Iniziativa, quest’ultima, che rafforzerà significativamente l’immagine del presidente francese quale costruttore di ponti tra Washington e Mosca.

È degno di nota, sullo sfondo degli sforzi diplomatici di Macron, che da Ankara stiano venendo lanciate accuse piuttosto gravi all’indirizzo di Parigi: secondo il Daily Sabah, il quotidiano-megafono dei servizi segreti turchi, la Francia avrebbe iniziato a trasferire nel teatro dei combattimenti un numero imprecisato di combattenti curdi, appartenenti all’Ypg e al Pkk e provenienti da Siria e Iraq.

Perché la Francia supporta l’Armenia?

Le dichiarazioni e le manovre dell’inquilino dell’Eliseo sono estremamente importanti per diverse ragioni: sono in netta controtendenza con quello che sembra essere l’atteggiamento comunitario predominante, palesano l’ambizione francese di proseguire lo scontro a distanza con la Turchia per il dominio dell’Europa allargata e, soprattutto, spianano la strada al riconoscimento dello status quo nel Nagorno: un’area contesa che de jure è azera ma de facto è armena.

Ma non si può comprendere il posizionamento francese riducendo l’intera questione al braccio di ferro in essere con la Turchia. Altri due elementi devono essere presi in considerazione: l’influenza della lobby armena a Parigi, i sogni eurasiatici di Macron.

Nel primo caso la Francia è casa della più grande comunità diasporica armena del Vecchio Continente, circa 600mila persone, la cui voce viene frequentemente ascoltata dal mondo politico. Questo accade perché gli armeni hanno saputo trasformare il peso demografico in una forza istituzionalizzata, il Gruppo di Amicizia Parlamentare Francia-Armenia, un gruppo di pressione molto influente che regolarmente propone iniziative legislative e che ha svolto, e continua a svolgere, un ruolo di primo piano nel mantenimento di relazioni bilaterali di alta qualità tra Parigi e Yerevan. Lo stesso gruppo, nelle ore successive all’inizio degli scontri del 27 settembre, si era attivato celermente per chiedere  una riunione in Parlamento in cui discutere del posizionamento del governo sul conflitto azero-armeno, ottenendola.

Il secondo punto riguarda la visione del mondo di Macron, un liberale che agisce nella scacchiera internazionale seguendo un approccio rigidamente pragmatico e realista. Nel caso specifico della Russia, le parole e le azioni dello statista indicano che abbia mescolato due delle principali scuole di pensiero politico francesi: l’universalismo napoleonico ed il gollismo.

Si tratta di due concezioni del mondo che, pur essendo in parte complementari, non possono che dar luogo ad inevitabili contraddizioni in quanto impossibili da fondere in maniera coerente. Infatti, mentre l’universalismo napoleonico, di ispirazione illuminista, ha come fine ultimo l’esportazione nel mondo degli ideali liberali della rivoluzione francese, ritenuti intrinsecamente superiori, il gollismo risente maggiormente di una concezione realista della storia e delle relazioni internazionali e ha obiettivi più geopolitici che idealistici, ovvero il ritorno dell’Europa al suo storico ruolo di forza di interposizione fra Ovest ed Est.

In ciascun caso si tratterebbe di credere nell’esistenza di una civiltà europea estesa da “Lisbona a Vladivostok”, ciò che cambia è il modo in cui Parigi concepisce il proprio ruolo all’interno di essa. Nel caso dell’universalismo napoleonico si tratterebbe di costruire un ordine franco-centrico incardinato su un determinato schema di valori, nel caso del gollismo si tratterebbe di dar vita ad un sistema euro-centrico incardinato sul mutuo rispetto e sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle differenze.

Macron è un gollista nella maniera in cui tenta di emancipare l’Europa dalla posizione di sudditanza rispetto agli Stati Uniti venutasi a creare nel secondo dopoguerra, e consolidatasi con la fine della guerra fredda, ed è un novello Napoleone nella maniera in cui vorrebbe un dialogo con la Russia alle condizioni dettate dall’Eliseo.