Lo scorso 11 maggio, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha pronunciato un discorso molto importante sul presente e futuro della politica estera degli Stati Uniti al Claremont Institute di Beverly Hills, ripreso anche dal diplomatico Brett McGurk sull’autorevole Foreign Affairs. Nel suo intervento intitolato “Una politica estera dalla Fondazione”, Pompeo ha citato John Quincy Adams per spiegare come la politica estera di Donald Trump si basi su un “realismo” dimenticato dai suoi predecessori George W. Bush e Barack Obama. Adams, allora Segretario di Stato, scrisse nel 1821 che l’America “non va all’estero in cerca di mostri da distruggere. Gli Stati Uniti amano la libertà e l’indipendenza di tutti”.
Secondo Pompeo, la politica estera dell’amministrazione Trump si basa su questa prudente tradizione figlia dei Padri Fondatori degli Stati Uniti ancorata su “realismo, moderazione e rispetto”. Il Presidente Trump, ha spiegato Pompeo, “non ha alcuna intenzione di usare la forza per diffondere il modello americano”. Al contrario, “si propone di dare l’esempio”. Ha poi citato George Washington, il quale affermò che la democrazia americana potrebbe ispirare “l’applauso, l’affetto e l’adozione di ogni Nazione che è ancora estranea ad essa”.
Il discorso di Pompeo delinea una politica estera basata sul realismo e su un’attenta articolazione degli interessi americani. Il Segretario di Stato sostiene che l’amministrazione Trump agisce con molta cautela contro la sovra-estensione all’estero. “Non accadrà più”, afferma Pompeo, gli Stati Uniti “non si impegneranno in conflitti senza un chiaro obiettivo della missione”. Ma è davvero così?
Pompeo ha davvero ragione?
In campagna elettorale, Donald Trump fu l’unico – insieme al “socialista” Bernie Sanders – a mettere in discussione la strategia dell’egemonia liberale che aveva contraddistinto, pur con dei distinguo, le amministrazioni Clinton, Bush e Obama. Alla fine della Guerra Fredda, infatti, il famoso politologo Francis Fukuyama pubblicò il celebre saggio The End of History?: il liberalismo, sostenne, sconfisse il fascismo nella prima metà del XX secolo e il comunismo nella seconda metà, e ora non rimane alcuna valida alternativa. Il mondo, secondo il parere del politologo, sarebbe stato interamente popolato da democrazie liberali e nessuna nazione avrebbe avuto alcuna controversia significativa. Un ottimismo che ha spinto gli Usa ad promuovere un ordine internazionale liberale nel quale l’America fungevano da unica superpotenza.
Come nota Brett McGurk, consulente dei presidenti Obama e Trump per lo Stato Islamico su Foreign Affairs, dall’11 settembre 2001 gli Usa hanno intrapreso una politica estera estremamente ambiziosa e guerre “che hanno avuto inizio con obiettivi chiari (rimuovere i talebani dall’Afghanistan e Saddam Hussein dall’Iraq)”, ma poi “si sono trasformate in campagne pluridecennali per democratizzare società che i leader degli Stati Uniti a malapena capivano”. Il presidente Barack Obama, scrive McGurk, “ha inseguito degli ambiziosi regime change in Siria e in Libia” dando tuttavia poca attenzione “a quali erano i costi” e, soprattutto, a cosa sarebbe accaduto dopo. “Oggi il presidente siriano Bashar al-Assad è ancora al potere e la Libia è un disastro completo” sottolinea il diplomatico americano.
Donald Trump ha vinto le elezioni del 2016 anche per questo motivo, promettendo un importante disimpegno dai maggiori teatri di guerra che avevano visti coinvolti gli Usa in conflitti estenuanti e senza risultati: dopotutto il “populismo” di Trump, osserva Walter Russel Mead su Foreign Affairs, è radicato “nel pensiero e nella cultura del primo presidente populista del Paese, Andrew Jackson“. Per i jacksoniani, e al contrario dei wilsoniani, “gli Stati Uniti non sono un’entità politica creata e definita da una serie di proposizioni intellettuali radicate nell’illuminismo e orientate verso l’adempimento di una missione universale”. Piuttosto, spiega, “è lo stato-nazione del popolo americano”.
Le contraddizioni di Pompeo: Venezuela, Iran e Siria
Nonostante l’enfasi su “realismo” e “moderazione”, parole rimarcate più volte durante il discorso di Mike Pompeo al Claremont Institute, ciò non riflette la politica estera dell’attuale amministrazione americana. “Trump potrebbe anche non rendersene conto, ma dall’arrivo di John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale l’anno scorso, in particolare, la sua amministrazione ha perseguito quelle che sono in effetti politiche di Regime change non in uno, ma in tre Paesi: Venezuela, Siria e Iran” afferma Brett McGurk.
In Venezuela, osserva il diplomatico americano, “l’amministrazione ha fissato un obiettivo – Maduro deve andarsene – senza un piano credibile oltre alle sanzioni e ai tweet per realizzarlo. Le sanzioni sono uno strumento efficace se legate a obiettivi politici limitati, ma non sono mai riusciti a rovesciare un regime. Dato l’obiettivo dichiarato, inoltre, per ogni giorno in cui Maduro rimane al potere, gli Stati Uniti sembrano deboli e spericolati, in particolare rispetto a Russia e Cina, entrambi sostenitori del regime di Maduro”.
Sebbene gli Stati Uniti non chiedano esplicitamente un cambio di regime in Iran e in Siria, afferma McGurk, “sta perseguendo politiche in entrambi i Paesi che, se portati alle loro logiche conclusioni, richiedono un cambio di governo. In Siria, gli obiettivi politici degli Stati Uniti sono cresciuti in modo esponenziale da essere privi di senso, visto il basso livello di investimenti di Washington nel Paese e il desiderio manifestato da Trump di andarsene del tutto”. In Iran, prosegue, “l’amministrazione non sembra concordare su un obiettivo specifico, anche se cerca far implodere il Paese attraverso la massima pressione e le sanzioni. Trump odia sembrare debole, ma è così che la sua politica estera lo sta facendo apparire”.
Nella campagna elettorale del 2016, Donald Trump ha apertamente dichiarato che la politica estera degli Stati Uniti negli 30 anni era stata in gran parte un fallimento. Aveva assolutamente ragione e questo è un gran merito. Sebbene avvia evitato i disastrosi e fallimentari flop del suo predecessore Obama, Trump non è riuscito a mantenere del tutto ciò che aveva promesso e i venti di guerra nel Golfo Persico, dopo l’attacco alle due petroliere, non promettono nulla di buono.