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Miami (Florida) Doralzuela, è stata ribattezzata così Doral, cittadina a una trentina di chilometri da Miami Beach, dove nell’estate appena conclusa sembra di stare alla Garbatella, complice forse l’omonimo film di Vanzina o i voli low cost che i tour operator offrono ai romani alla ricerca dell’American Dream su spiagge che d’inverno, l’alta stagione in Florida, sono invece metà dell’élite newyorkese. Dei 60mila abitanti di Doral almeno un quinto sono venezuelani, la maggiore percentuale di tutti gli Stati Uniti. Come ad esempio l’ex sindaco Luigi Boria, battuto al ballottaggio lo scorso novembre da «JC» Bermudez, quest’ultimo nato invece a Cuba, essendo proprio cubana l’altra grande comunità che ha trasformato questa parte d’America in un’enclave latina in fuga dal comunismo reale in salsa caraibica.

AP591928356653A Doral il numero dei «figli della diaspora» causata dal regime dittatoriale ed affamatore del presidente venezuelano Nicolás Maduro è in continuo aumento. Per rendersene conto basta andare la notte nell’area verde dei due Publix (la catena di supermercati più diffusa in Florida) presenti in questo settore della contea di Miami-Dade. Qui a dormire ammucchiati su un unico materasso in vecchi pulmini ci sono intere famiglie di venezuelani che hanno perso tutto con la «rivoluzione madurista», o come la chiamano loro la robolución, ma non hanno ancora soldi a sufficienza per potersi affittare un appartamento, neanche un monolocale. Del resto è proprio grazie ai venezuelani in fuga dalla loro patria che Doral per le statistiche è tra le dieci città cresciute maggiormente negli Stati Uniti negli ultimi 6 anni, con un boom della popolazione del 26,1%, pari a 12mila abitanti in più. Doralzuela dunque perché – da quando il Venezuela si è trasformato in una narco-dittatura comandata da personaggi degni di Scarface, con migliaia di prigionieri politici, 25mila morti ammazzati l’anno e l’inflazione più alta al mondo – qui a Doral ogni settimana «sbarcano» centinaia di profughi da Caracas e dintorni. E non è un caso che proprio nella chiesa di Nostra Signora di Guadalupe di Doral, lo scorso 23 di agosto, sia arrivato in visita ufficiale l’algido vice-presidente Mike Pence, accompagnato dal trascinante senatore Repubblicano Marco Rubio. Il primo, complice il suo pessimo spagnolo, non ha scaldato i cuori delle migliaia di persone accorse ad ascoltarlo nella speranza di annunci clamorosi, a cominciare da un visto speciale per i venezuelani, mentre Rubio – figlio di esuli cubani che ha detto nella sua lingua madre che «Maduro è un criminale» ed il suo braccio destro «Diosdado Cabello è il Pablo Escobar venezuelano» ha raccolto applausi scroscianti. Obiettivo dell’incontro era far sentire la vicinanza delle istituzioni democratiche statunitensi alla diaspora venezuelana che, solo negli ultimi sei mesi, si è trasformata in un esodo biblico, con due milioni di esseri umani in fuga dalle bellezze del socialismo del XXI° secolo inventato da Chávez. «Io sono scappato dal Venezuela lo scorso 14 luglio racconta al Giornale Wilfrido Rocha, un giovane imprenditore che a Maracaibo aveva un’officina con 15 dipendenti e oggi si mantiene in Florida facendo l’autista di Uber con la macchina prestatagli dal cognato dopo molte minacce dei collettivi e prima che Maduro imponesse con la forza e con la frode la sua maledetta Costituente cubana». Ha le lacrime agli occhi questo ragazzone di 30 anni mentre racconta il suo dramma personale, con una moglie laureata in ingegneria costretta a fare la donna delle pulizie e due figli «che hanno iniziato lunedì 21 agosto ad andare a scuola» e «anche se d’inglese sanno zero non sarà un problema» perché «tutti a Doral parlano lo spagnolo» e perché, comunque, «è meglio vivere qui liberi che morire un po’ ogni giorno sotto la dittatura assassina di Maduro».

«Oggi sono almeno 185mila i miei compatrioti che vivono in Florida assicura padre Pedro Freites, sacerdote perseguitato dal regime di Maduro e costretto a rifugiarsi a Weston, altra cittadina della diaspora, dove gestisce «con tutto ciò che posso» gli aiuti alle famiglie «in fuga dalla miseria causata dalla narco-dittatura chavista». C’è chi assicura siano già oltre 200mila, compresi quelli entrati con il visto da «turisti», ma fa poca differenza perché a Weston, così come a Doral o a Corals Springs, altra città del Sud della Florida dove incontriamo l’ammiraglio Mario Iván Carratú Molina per la cronaca anch’egli costretto all’esilio «dal 2013 a causa della persecuzione di Maduro» – la comunità venezuelana ha oramai superato quella cubana, se non in numero, sicuramente per il suo attivismo politico contro i regimi autoritari e corrotti della sinistra latinoamericana. Il motivo è semplice: con l’apertura di Obama del dicembre 2014 da Cuba è arrivato di tutto in Florida, compresi migliaia di ex funzionari castristi e figli di attuali dipendenti della dittatura di Raúl. Come, ad esempio, il dipendente di un hotel di Long Key, l’Edgewater Lodge, che essendosi fatto «22 anni a Praga prima della caduta dell’Urss» parla di Cuba solo per «elogiarne la pubblica istruzione». O come José – arrivato due anni fa grazie all’appeasement obamiano, oggi fa l’autista di Uber secondo il quale «Maduro è molto, molto meglio di chi lo critica perché ama il suo popolo». Se non un ex funzionario del G2, il servizio segreto castrista, qualcosa di molto simile, non fosse altro che per le analisi di politica estera degne di Granma e, di certo, assai strane in bocca ad un «esule cubano».

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