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Il Mar Cinese Meridionale è un importante specchio d’acqua che mette in comunicazione l’Oceano Indiano con il Pacifico su cui si affacciano Indonesia, Vietnam, Filippine, Malaysia, Singapore, Brunei e Cina.

Attraverso di esso, e per il vitale Stretto della Malacca, passano ogni anno merci per un valore stimato di circa 3mila miliardi di dollari: tra il 2015 ed il 2016, ad esempio, il 60% del commercio marittimo globale passava attraverso l’Asia, con il Mar Cinese Meridionale che, da solo, rappresentava circa un terzo del traffico navale del mondo.

Quel mare è anche importante perché fonte di risorse ittiche e minerarie: si stima che ci siano, approssimativamente, riserve certe e probabili – ovvero di cui ne è stata fatta una valutazione con prospezioni geologiche – pari a 11 miliardi di barili di petrolio equivalente e 5380 miliardi di metri cubi di gas naturale.

Risorse naturali che fanno gola a tutti i Paesi rivieraschi, ma piĂą ancora il Mar Cinese Meridionale è fondamentale per la sicurezza delle linee di navigazione di alcune nazioni asiatiche come il Giappone e la Cina, e, in ultima analisi, di tutta l’Asia orientale, come abbiamo visto.

Pechino teme particolarmente che i suoi avversari geopolitici (nella fattispecie gli Stati Uniti) possano, in caso di necessità, attuare il blocco di queste linee di navigazione grazie alla superiorità del proprio strumento navale: un timore che prende il nome di “Dilemma della Malacca”.

Mappa di Alberto Bellotto

Per cercare di contrastare la talassocrazia statunitense la Cina sta lavorando alacremente per dotarsi di una flotta d’alto mare (blue water navy): nel 2004, l’ex presidente Hu Jintao per la prima volta parlò di una “nuova missione storica” e introdusse il concetto per cui la Cina avrebbe dovuto difendere i suoi interessi non solo sul continente ma anche oltremare. Otto anni dopo, il XVIII Congresso del Pcc (Partito Comunista Cinese) stabilì che la Cina dovesse diventare una “grande potenza navale”. La dirigenza cinese sottolineò in particolare la necessitĂ  di dotarsi di “punti di approdo strategici” necessari a difendere gli interessi cinesi e a proiettare la propria influenza politica e militare nelle “regioni influenti”.

Questa proiezione di forza se ancora si sta delineando in embrione nei mari lontani – per il momento Pechino ha una sola base oltremare, a Gibuti, nel Corno d’Africa – è invece ben evidente proprio nel Mar Cinese Meridionale dove Pechino ha occupato alcuni isolotti degli arcipelaghi delle Spratly e delle Paracelso e ne ha costruiti di artificiali.

Occupazioni cominciate ben prima della nuova dottrina navale cinese determinata, in embrione, da Hu Jintao: nel 1946, la Cina si stabilì su alcune isole delle Spratly e all’inizio del 1947 si impadronì anche di Woody Island, nelle Paracelso. Dopo decenni di relativa quiete, alla fine degli anni ’70, col conflitto che vide Pechino contrapporsi al Vietnam unificato, la Cina penetrò maggiormente nelle isole disabitate, per poi riaffacciarsi nel 1988, in un secondo breve scambio “di cannonate” con Hanoi, che permise un altro ciclo di occupazioni da parte dei contendenti. Le prime vere attivitĂ  di militarizzazione delle isole occupate risalgono al 1995, quando la Cina ha costruito dei bunker a Mischief Reef, ma solo recentemente, a partire dal 2013, Pechino ha cominciato sistematicamente a costruire installazioni aeroportuali che hanno uso “duale”, ovvero sia civile che militare.

Mappa di Alberto Bellotto

La Cina aveva rassicurato che quanto stava facendo sulle isole occupate non avrebbe avuto finalitĂ  militari: parlando al fianco del presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Rose Garden della Casa Bianca nel settembre 2015, il presidente cinese Xi Jinping offrì alcune assicurazioni sull’attivitĂ  nelle isole allora, in particolare nelle Spratly, dove Pechino stava bonificato gli atolli e costruendo sette isole artificiali. “Le attivitĂ  di costruzione che la Cina sta intraprendendo nelle isole Nansha (Spratly) non prendono di mira o hanno un impatto su nessun Paese e la Cina non intende perseguirne la militarizzazione”, aveva osservato Xi in quel momento. La realtĂ , poi, ha dimostrato il contrario.

Ad aprile 2015 viene costruita una pista di atterraggio a Fiery Cross Reef, mentre nel 2016 Pechino comincia ad armare Woody Island e Fiery. A maggio 2018 bombardieri cinesi dimostrano, per la prima volta, con un video diffuso dai media di Stato, di poter usare una pista di atterraggio costruita, forse, su Fiery Cross Reef, ma potrebbe trattarsi anche delle isole di Subi o Mischief.

Nonostante in quegli arcipelaghi ci siano insediamenti di altri Paesi coinvolti nella contesa per il Mar Cinese Meridionale (come il Vietnam, le Filippine e la stessa Indonesia), è la Cina ad aver dimostrato di avere un piano concreto per l’occupazione di lungo termine: Pechino, nell’edizione di Naval and Merchant Ships di novembre/dicembre 2020, una rivista mensile con sede a Pechino molto vicina agli ambienti governativi e militari, ammette che le isole contese e da lei rivendicate sono parte integrante del suo strumento militare, e che, anche a discapito di certe criticitĂ , sono fondamentali per “salvaguardare la sovranitĂ  cinese” e per “mantenere una presenza militare nelle profonditĂ  dell’oceano”. La strategia è chiara: quella serie di isole permette di allungare il braccio armato cinese dalla Cina continentale (isola di Hainan), sino quasi allo Stretto della Malacca, stabilendo un perimetro Anti Access/Area Denial con una tattica ben nota, ovvero quella del “salto della rana” che consiste nell’avere basi di appoggio in successione a determinate distanze in modo da poter fare da punto di appoggio per le operazioni militari.

Una tattica che, però, abbisogna dell’ottenimento della superioritĂ  aeronavale, e proprio per questo Pechino negli ultimi anni ha dato grande impulso sia allo sviluppo di nuove unitĂ  navali (tra cui portaerei), sia alla missilistica (tra cui quella ipersonica) in funzione di contrasto alla presenza della U.S. Navy nel settore del Pacifico Occidentale.

Parallelamente alla presenza militare nel Mar Cinese Meridionale, Pechino sta lavorando anche dal punto di vista del regolamento internazionale: la Cina sta negoziando con dieci stati del Sudest Asiatico per elaborare un codice di condotta per quello specchio d’acqua, ma contemporaneamente ha stabilito, unilateralmente, che diverse categorie di navi dovranno comunicare i propri dati alla Guardia Costiera cinese (Msa – Maritime Safety Administration) prima di entrare nel Mar Cinese Meridionale. Il primo vero passo verso la nazionalizzazione di quel mare che, solo per una piccola parte (quella piĂą settentrionale), ricade nella piattaforma continentale di Pechino e quindi nella sua Zona di EsclusivitĂ  Economica (Zee).

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