Quando nel 2015 Mauricio Macri, l’imprenditore ed ex presidente del Boca Juniors, riuscì a strappare la Casa Rosada, residenza del capo dello Stato argentino, agli eredi divisi dei peronisti di Cristina Kirchner, l’America Latina conobbe l’inizio di una fase di svolta che arginò, anno dopo anno, la presa dei governi socialisti e di sinistra sul continente sudamericano. Da ultimo, è stato il Brasile a svoltare a destra premiando la piattaforma liberista, securitaria e giustizialista di Jair Bolsonaro, non a caso primo alleato regionale del presidente argentino.
Ponendo a parte il caso del Messico e del suo presidente Lopez Obrador, proprio l’Argentina ha segnato il primo, fragoroso stop di un’ondata elettorale che, dal Cile all’El Salvador, aveva riportato al centro dell’agone esponenti politici favorevoli a riforme economiche di stampo neoliberista, privatizzazioni dei settori strategici e passaggio dal multilateralismo a una più granitica alleanza con gli Stati Uniti. In vista della sfida presidenziale del 27 ottobre, infatti, Macri è stato surclassato dall’ex Capo di Gabinetto di Cristina Kirchner, Alberto Fernandez, che corre in tandem con l’ex presidentessa come sua vice, alle elezioni primarie dell’11 agosto.
Perché le primarie sono importanti
Formalmente le primarie in Argentina servono come soglia di sbarramento fondamentale per tutti i ticket presidenziali in corsa, che devono mobilitare alle urne almeno l’1,5% del totale degli elettori votanti (in questo caso un elevatissimo 75%) per qualificarsi alla contesa elettorale vera e propria. Di fatto, l’importanza principale è legata al “braccio di ferro” tra i principali contendenti, che possono avere un primo, vero riscontro della loro capacità di mobilitazione dell’elettorato e del peso relativo con gli avversari.
Macri in questo caso è stato surclassato dall’avversario, favorevole a una piattaforma politica contraria alle politiche di austerità e alla svolta neoliberista di Macri, fermandosi al 33% con 7,2 milioni di voti, mentre il duo Fernandez-Kirchner ha toccato 10,7 milioni di voti e il 48%, percentuale che se mantenuta gli consentirebbe di evitare il ballottaggio, dato che in Argentina la soglia per la vittoria al primo turno è fissata al 45%.
L’ex presidente brasiliana Dilma Rousseff ha salutato l’exploit di Fernandez come “la luce in fondo al tunnel” e l’inizio della fine della stagione di restaurazione neoliberista contro i governi del socialismo latinoamericano. Sarà davvero così? Quel che è sicuro è che Macri perde pesantemente alle primarie e rischia un disastro ancora peggiore alle elezioni di ottobre perché l’Argentina è sempre più insofferente sulla tenuta della sua agenda economica che sta impoverendo il Paese sin dall’inizio del suo mandato.
Un voto travolgente contro l’austerità
Uno solo è sembrato essere l’obiettivo di Macri sin dal 2015: trasformare l’Argentina in un paradiso per gli investitori stranieri aprendo al mercato le società pubbliche, i terreni e, soprattutto, i mercati finanziari del Paese. Il crollo fragoroso della borsa di Buenos Aires (anche -48% per alcuni momenti) nella giornata del 12 agosto e l’aumento del valore del dollaro sul peso, passato fino a un cambio 60 a 1, non sono da intendersi tanto come una manifestazione della sfiducia dei mercati sul programma economico dei peronisti ma, piuttosto, come la parallela dimostrazione della totale cessione di sovranità da parte di Macri ai settori speculativi della finanza e la dimostrazione degli effetti collaterali di un legame ombelicale con le borse in una fase di ristagno dell’economia reale.
Disoccupazione e povertà in aumento, oltre a un inflazione del 50%, sono stati i risultati dell’azione economica di Macri nel 2018. Illudendosi di poter rilanciare il Paese, Macri ha varato importanti programmi di liberalizzazione degli asset pubblici argentini, decretato la completa liberalizzazione del mercato valutario, rimosso qualsiasi limite all’acquisto di dollari e firmato accordi-capestro con gli ex speculatori che hanno attaccato, nelle crisi passate, il debito argentino: celebre è stato il settlement trovato con il miliardario repubblicano Paul Singer, azionista di maggioranza di Elliott e proprietario del Milan,che ha realizzato un profitto del 1.200% su dei titoli di Buenos Aires acquistati al valore ridotto di 170 milioni di dollari e che gli sono fruttati 2,3 miliardi provenienti dalle casse del Paese latinoamericano.
Ma non solo: Macri ha aperto linee di finanziamento insensate, come una serie di titoli centennali aventi cedole del 7% annuo, che lo hanno reso progressivamente dipendente dalle piazze finanziarie. La borsa e la finanza, soprattutto di matrice statunitense, banchettava con i pubblici denari argentini mentre, nel frattempo, per ottenere una boccata d’ossigeno il governo di Macri ha autorizzato quella che Roberto Lampa, docente di economia all’Università di San Martin di Buenos Aires, ha definito su Jacobin “la sanatoria per il rientro dei capitali più grande della storia del capitalismo (110 miliardi di dollari)”. Uno scenario greco, quello dell’Argentina di Macri, con costo della vita in aumento, disoccupazione in doppia cifra e povertà al 30%.
Il Fondo monetario internazionale ha voluto aprire una linea di credito da 50 miliardi di dollari verso Buenos Aires in cambio di profonde riforme strutturali e di un aumento della pressione fiscale che per Macri rischia di rappresentare il bacio della morte: cortei, proteste e manifestazioni hanno segnato la vita quotidiana di Buenos Aires nell’ultimo anno, accendendo un clima già reso teso dalle divergenze politiche tra Macri e gli avversari peronisti. Pronti a tornare in sella nel voto di ottobre e a disarcionare un Presidente che va via via perdendo il consenso della popolazione, che pure in delle elezioni legislative che ora appaiono appartenenti a un’altra epoca aveva voluto dargli fiducia. Il peronismo non è morto, ed è pronto a tornare maggioritario: e nel caso Fernandez concedesse il bis sconfiggendo Macri ad ottobre le conseguenze si farebbero sentire a livello regionale.