Il primo secolo del Duemila appare come il secolo delle guerre ibride, senza limiti e multidimensionali. Guerre che si combattono simultaneamente ed in egual misura nello spazio virtuale e nella realtà fisica. Chiunque può essere arruolato, anche inconsapevolmente, nell’esercito delle guerre di ultima generazione: hacker, speculatori finanziari, attivisti politici, organizzazioni non governative, musicisti e influencer.

L’obiettivo delle guerre post-clausewitziane non è la distruzione territoriale del nemico; è la sua caduta in un vortice di instabilità produttiva che, erodendo le basi della pace sociale, è in grado di condurre a degli stati di tensione permanente fra classi, gruppi sociali, comunità etniche e fazioni politiche che, se destramente utilizzati, possono spianare la strada a guerre civili, rivoluzioni colorate, colpi di stato e insurrezioni intermittenti. Lo studio del caso del Guatemala di Jacobo Arbenz, la guerra ibrida antelitteram, è estremamente utile ai fini della comprensione del fenomeno ivi analizzato.

Gli architetti delle guerre di nuova generazione agiscono nella piena consapevolezza che concordia civium murus urbium, perciò gli statisti – oltre a preoccuparsi di interferenze elettorali, attacchi cibernetici e operazioni psicologiche – dovrebbero porre adeguata attenzione ad un altro campo esposto e vulnerabile a penetrazioni esiziali da parte esterna: i “nuovi diritti”.

I nuovi diritti come arma

Non vi è forza più travolgente e irrefrenabile di una società che chiede un cambiamento. Lo aveva compreso Gustave Le Bon sul finire del 1800, preconizzando l’avvento della società delle folle, e un secolo più tardi il filosofo e politologo Gene Sharp avrebbe sviluppato una teoria per trasformare i mutamenti sociali e generazionali in un’arma: le rivoluzioni colorate.

Il ricordo della divisione dell’Europa in blocchi sbiadisce, ma la memoria delle primavere di libertà emerse dalle idee di Sharp è più vivido che mai. Morto il secolo delle ideologie, e crollato il comunismo, negli anni 2000 si è assistito all’entrata in scena dei cosiddetti nuovi diritti, nel nome dei quali nascono movimenti di protesta, correnti culturali e rivolte che hanno dimostrato di poter e saper piegare i governi.

L’armamento dei nuovi diritti riguarda in maniera particolare l’Occidente, e a latere l’America Latina, dove si diffondono, prosperano e proliferano stati di insurrezione intermittente e disordini civili generalizzati, che si nutrono della crescente polarizzazione delle società e che non di rado riescono a provocare la caduta del governo al potere o ad alterarne in maniera significativa l’agenda politica – dei veri e propri colpi di stato morbidi.

Uno dei casi più recenti di destabilizzazione causata dai nuovi diritti, e sui quali grava l’ombra di possibili regie occulte, è la Polonia di Diritto e Giustizia (PiS). I motivi conduttori degli incidenti più gravi che abbiano scosso il Paese nell’epoca post-comunista sono la questione arcobaleno e l’aborto, cavalli di battaglia di una rete di organizzazioni nongovernative e collettivi – supportati da donatori anonimi e privati – che fra agosto e novembre ha testato la tenuta del governo, inscenando marce e scontri, anche piuttosto violenti.

Da dove proviene il loro potenziale?

I nuovi diritti sono attraenti agli occhi dei popoli, in particolare dei giovani, perché trasudano libertà esasperata e iper-individualismo. Essi sono l’espressione più manifesta della cornucopia permissiva, quel fenomeno che secondo Zbigniew Brzezinski avrebbe messo a dura prova la stabilità delle società occidentali nel nuovo secolo, e la loro strumentalizzazione non è affatto un argomento da dietrologia. L’Unione Europea – per citare un caso recente – lo scorso agosto ha approvato un piano d’azione per aumentare le pressioni dal basso su Aleksandr Lukashenko basato sull'”aumento del supporto al popolo bielorusso, incluso un impegno potenziato e finanziario verso la società civile, e sostegno addizionale all’informazione indipendente”.

Supporto alla società civile, all’opposizione e all’informazione indipendente ha un unico significato, sin dall’epoca delle rivoluzioni colorate anticomuniste: condizionamento dei valori, delle attitudini e delle percezioni dell’opinione pubblica del regime che si intende indebolire, condurre al tavolo negoziale o far cadere. Per condizionamento si intendono la diffusione e la promozione di sistemi valoriali e stili di vita in antitesi a quelli imperanti e che, una volta radicati, aumentano le probabilità di un fenomeno rivoluzionario dal basso e apparentemente genuino.

Nell’era dei nuovi diritti e della politica delle identità, le fondamenta di un governo liberale potrebbero essere aggredite facendo leva sui sentimenti conservatori di una parte della popolazione, mentre un governo conservatore potrebbe essere indebolito e/o condotto alla caduta anticipata ricorrendo alle forze liberali. La stessa logica è applicabile alle società multirazziali – Black Lives Matter docet – e alle realtà più secolarizzate e avanzate dal punto di vista dei diritti, dove si può stimolare la radicalizzazione di movimenti anticorruzione, antisistema, ambientalisti, femministi e arcobaleno.

Le democrazie liberali sono particolarmente permeabili alle guerre ibride, e al loro moto evolutivo perenne, in virtù della loro stessa natura pluralista. Autocrazie e dittature, però, non sono immuni dal rischio del rovesciamento causa innesto di idee sovversive: lo dimostrano i casi del blocco comunista e delle rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico dei primi anni Duemila. Non solo operazioni asimmetriche e cibernetiche, quindi, le guerre di ultima generazione si combattono anche attraverso armi meno visibili, come i diritti, che possono colpire duramente chiunque e ovunque.

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